Rafael Nadal è la perfetta incarnazione di una delle definizioni di sport sport, di uno dei modi di concepire il fine ultimo dell’attività agonistica: la tensione che porta l’atleta a un continuo lavoro su di sé, con l’obiettivo di alzare costantemente l’asticella del proprio rendimento. Mi pare una definizione che aderirebbe anche a un monaco buddhista. Lo sport come conoscenza di sé – e dei propri limiti. E come accettazione della sconfitta. Concetti che valgono per tutti i fuoriclasse, non soltanto per Nadal. Perché è del tifoso da divano l’idea che possa bastare il talento per primeggiare. Non era vero nemmeno per Maradona, vittima di una retorica più volte smentita dal suo storico preparatore Fernando Signorini. Figuriamoci per Nadal.
Rafael Nadal, a 35 anni, è un esempio. Nelle facoltà spagnole di psicologia, il suo nome ricorre ripetutamente nelle lezioni universitarie. È un modello di tenacia, perseveranza, abnegazione. Di lealtà e rispetto. Nel dizionario dei contrari, alla voce arrendevolezza fa da contraltare il suo cognome. Ieri si è commosso persino Adriano Panatta, uno che ai top spin esasperati ha sempre preferito i colpi piatti – quelli che fanno pof pof.
All’indomani della vittoria agli Australian Open, 21esimo Grande Slam della carriera di Rafa (uno in più di Djokovic e Federer), dopo sei mesi di stop per un’operazione al piede che avrebbe potuto significare carriera finita, El Mundo ha sentito il bisogno di commentare l’impresa con esperti di psicologia dello sport. Proprio lui, Nadal, che non si è mai avvalso di uno psicologo. Ma è come se da piccolo fosse caduto nella pozione dell’autocontrollo e dell’autodisciplina. In realtà, ha avuto una guida che lo ha illuminato: suo zio Toni. Scrive El Mundo: «La stessa cosa che (zio Toni) ha proposto a Rafael, altri non erano disposti a farlo, ovviamente. Una delle cose su cui insisteva sempre era di non lamentarsi. È quello che è e devi giocare. Non mi piacciono le persone che si lamentano. Chi si lamenta non è disposto a fare nulla per cambiare la propria situazione». Toni Nadal, che oggi non segue più il nipote, è da tempo editorialista di un altro quotidiano spagnolo: El País. E stamattina, in un suo articolo, ha riportato una vecchia conversazione con Rafa: «Ricordo che un ex tennista mi rivelò di essersi pentito di non aver combattuto al cento per cento tutte le partite della sua carriera e di averlo capito troppo tardi. Quando lo dissi a Rafael, cercando di fargli interiorizzare la lezione, lui rispose: “Non preoccuparti, a me non succederà. Quando andrò in pensione lascerò con la tranquillità di aver fatto tutto ciò che era in mio potere”».
Una delle grandi lacune dello sport riguarda la documentazione che se ne fa. Com’è che giusto che sia, ci si sintonizza quando va in scena l’evento. Quando si accendono le luci e si alza il sipario. Ma andrebbe mostrato meglio il backstage. Un atleta professionista è una persona che ha imboccato la strada del sacrificio. Una strada priva di certezze. Occorre una forza interiore spaventosa per riuscire a spremere il massimo impegno eppure rischiare di perdere. È un principio di vita che possiamo rintracciare in una certa incoscienza degli animali. Quando accade nell’uomo, è sorprendente. Il documentario su Federica Pellegrini è in questo senso illuminante per comprendere quanti dubbi possano assillare la mente di un’atleta che in fin dei conti accetta di convivere con la paura di non farcela – e quindi della sconfitta. Avere un match point contro, salvarlo per poi riuscire a vincere, equivale ad attraversare uno strapiombo su un filo. Il solo pensiero paralizza.
Nadal ha vissuto quasi vent’anni di tennis ad altissimo livello. Annullando match point, set point e palle break. Ha vinto il primo Slam a 19 anni, nel 2005. E il ventunesimo diciassette anni dopo. Quello conquistato ieri contro Medvedev, recuperando due set per la prima volta dal 2007, è il secondo Australian Open della sua carriera. Il primo l’aveva conquistato nel 2009. In tutti questi anni di mezzo, ha sfidato due tra i più grandi tennisti della storia di questo sport: Roger Federer e Novak Djokovic. Aver battuto Federer a Wimbledon nel 2008 è un’impresa semplicemente inspiegabile a parole. Nel corso della sua carriera Nadal ha messo in pratica una tale determinazione a migliorarsi da far credere a tante persone di essere un tennista qualitativamente non eccelso. Ovviamente non è così.
Il tennis, poi, è uno sport particolare. È un po’ come se si giocasse anche con la racchetta. La forza mentale è una componente fondamentale. Puoi fondere fisicamente ma anche col cervello. E se vai in tilt di testa, esci dalla partita e addio. A volte addio anche alla carriera. Nadal ha sempre accompagnato questa forza mentale a un’esuberanza agonistica raramente vista prima cui campi da gioco (forse Thomas Muster, che però ha una storia sportiva e personale completamente diversa). Chi lo ha seguito in questi anni non dimentica le malevole allusioni sui certi suoi prodigiosi recuperi. Invece anche questo è spiegabile. Nessuno ha avuto il coraggio di sfidare sé stesso e la paura di perdere come ha fatto lui. Nadal è un samurai con la racchetta. «Se riuscirai a confrontarti con Trionfo e Rovina / E trattare allo stesso modo questi due impostori. / Se riuscirai a costringere cuore, nervi e tendini / a servire il tuo traguardo quando sono da tempo sfiniti»: non ricordo atleti capaci di interpretare meglio questi vecchi versi di Kipling.
Non è nemmeno un caso che ieri il più bel messaggio di congratulazioni sia arrivato dal suo storico avversario: Roger Federer. Avversario e non nemico, perché i fuoriclasse si riconoscono. E non possono odiarsi.