Il Senegal ha vinto con la pazienza

La Coppa d'Africa conquistata contro l'Egitto cancella le delusioni del passato. È una Nazionale criticata, poco spettacolare ma molto solida. E deve molto al suo ct, Aliou Cissé.

Uno dei più bei proverbi in lingua wolof, parlata da oltre il quaranta percento della popolazione senegalese, recita: “Chi attende a lungo al pozzo, alla fine troverà un secchio da cui attingere”. Chissà se ha pensato lo stesso anche Aliou Cissé quando Sadio Mané, dopo essersi fatto ipnotizzare da Gabaski nei primi minuti della finalissima con l’Egitto, ha poi trasformato il rigore più importante della sua vita, il quinto e decisivo della lotteria conclusiva, regalando al Senegal la prima Coppa d’Africa della sua storia. «Siamo finalmente campioni d’Africa. È stato un percorso lungo, abbiamo atteso tanto, ma non ci siamo mai arresi. Dedico questa vittoria al popolo senegalese. Inseguivamo questa coppa. Da oggi possiamo mettere una stella sulla nostra maglia», ha detto a fine gara il commissario tecnico, mentre lacrime gli solcavano il viso.

Aliou Cissé sa di cosa parla. La sua carriera è un elogio alla pazienza. Un inno alla perseveranza. Era il capitano del leggendario Senegal che fece innamorare tutti ai Mondiali di Corea e Giappone, e aspettava questo trionfo da almeno vent’anni. Da quando, sempre nel 2002, aveva sperimentato per la prima volta l’amarezza di una sconfitta cocente, vedendo sfumare il trionfo continentale a un passo dal traguardo anche a causa di uno suo errore dal dischetto nella finale con il Camerun di Eto’o. Poi c’era stata la delusione del 2019, la prima da allenatore, con i Leoni della Teranga battuti dall’Algeria nell’ultimo atto dell’edizione disputata in Egitto.

Non deve quindi stupire se, alla vigilia della finale 2022, giocata proprio contro l’Egitto, in conferenza stampa si era respirata un’aria da appuntamento con la storia, come se ci fosse la necessità, anzi l’urgenza, di regolare i conti con i fantasmi del passato. Perché la consapevolezza del Senegal era diversa, era più alta: «Oggi sentiamo più forti», ha detto lui. Poi ha aggiunto: «il Cissé del 2021 non è quello 2019. Siamo cresciuti. Sono cresciuto». In questo modo, ha allontanato preventivamente anche la superstizione: «Quanto al “non c’è mai due senza tre”, non condivido questo modo di pensare. Ho un gruppo di giocatori ambiziosi che sanno il motivo per cui sono qui. Le sconfitte le abbiamo digerite. Anzi, abbiamo imparato molto da quelle partite perse, i dettagli che ci sono costati cari in passato e che adesso sappiamo come migliorare».

I suoi ragazzi, in un certo senso, hanno giocato e vinto anche per lui, a testimonianza di un gruppo coeso e compatto, determinato a scrivere il nome del Senegal nell’albo d’oro della Coppa d’Africa. «Penso che quest’uomo lo meriti perché è l’allenatore più criticato che abbia mai visto in vita mia, ma non si arrende mai», ha dichiarato Sadio Mané a Radio France International dopo la semifinale vinta 3-1 contro il Burkina Faso. «Vorremmo vincere per il nostro Paese e per lui perché se lo merita dopo tutto quello che ha passato da giocatore e ora da allenatore». Mané ha ragione e la sua non è solo retorica. Fin da quando si è seduto sulla panchina del Senegal, subentrando nel 2015 al francese Alain Giresse, Cissé è stato uno dei bersagli preferiti delle critiche di stampa e tifosi. Spesso vittima del fuoco amico. Le parole più dure, forse, sono state quelle di Khalilou Fadiga, mitico numero 10 della squadra di Bruno Metsu. «Se non vince la Coppa d’Africa, Cissé deve andare via». Dello stesso tono erano state anche le invettive di El Hadji Diouf, altro grande protagonista del Mondiale 2002, furibondo dopo l’eliminazione del Senegal al primo turno dei Mondiali di Russia nel 2018: «Finché questa squadra avrà Aliou Cissé come allenatore, non andrà da nessuna parte». Alle provocazioni dei suoi ex compagni, però, Cissé aveva sempre risposto con parole distensive e talvolta affettuose, affermando di essere concentrato solamente sul Senegal: «Mi alzavo ogni mattina pensando a come dare il massimo per la mia nazione, per il mio Paese. Questo è ciò su cui sono concentrato. Lascio che gli altri parlino del mio futuro».

Eppure il lavoro di Cissé, nato nella turbolenta regione della Casamance e trasferitosi in Francia quando era ancora un bambino, è sotto gli occhi di tutti. Il tecnico di Ziguinchor, scherzosamente soprannominato “Yaya Jammeh”, come l’ex dittatore del Gambia, per via dei suoi metodi piuttosto autoritari, non ha preteso una rivoluzione. Ma ha portato due ingredienti come lungimiranza e stabilità, assemblando in questi sette anni una squadra all’insegna della continuità e con un’identità riconoscibile, anche a costo di sacrificare l’estetica sull’altare del pragmatismo. A un ipotetico gran premio della bellezza il Senegal di Cissé non partirebbe mai in pole position, ma a lui poco importa: «Preferisco vincere come l’Atlético Madrid che perdere giocando come il Barcellona», ha detto.

La sintesi della finale

Equilibrio e solidità difensiva sono i due concetti chiave della filosofia di Cissé: in questa Coppa d’Africa il Senegal ha subito solamente due reti. Questo modo di giocare conservativo, fonte di grandi critiche in patria, sta pagando i suoi dividendi, se si pensa che da ormai trentanove settimane consecutive è la Nazionale africana con il miglior ranking FIFA.

Cissé, però, non ha fatto tutto da solo. Oltre al ruolo cruciale di accademie come Diambars (nella quale possiede quote anche Patrick Vieira) e Generation Foot (dov’è sbocciato Mané), spuntate come funghi nei primi anni del nuovo millennio come stratagemma usato dai club europei per aggirare la normativa FIFA che vieta i trasferimenti dei minorenni tra diversi continenti, il fatto di avere una nutrita schiera di giocatori che giocano stabilmente in club di alto livello in Europa, misurandosi con costanza nei contesti più competitivi del mondo, ha fatto probabilmente la differenza rispetto al passato. Tra l’ennesima delusione e il primo trionfo, tanto desiderato e agognato. Del resto il Senegal è storicamente il Paese dell’Africa Occidentale che ha i rapporti più proficui e profondi con la Francia e con l’Europa, non solo dal punto di vista calcistico. Questa prossimità è diventata una ricchezza inestimabile per la seconda generazione dorata, quella attuale, composta da giocatori che hanno accumulato esperienza in contesti più competitivi rispetto alla precedente.

Lo sa bene anche Augustin Senghor, il presidente della Federazione della Teranga: «I giocatori che militano nei più importanti club europei sono fondamentali per noi. Grazie a loro cresce tutto il movimento», ha sentenziato durante una nota trasmissione televisiva alla vigilia del torneo, lamentandosi anche della tendenza di queste società a non rilasciare facilmente i propri tesserati. Il numero uno federale si riferiva soprattutto a Ismaïla Sarr, giovanissima pepita del Watford. Dietro Mané e Koulibaly, insomma, c’è molto altro. Uno dei protagonisti assoluti di questa edizione, per dire, è stato Edouard Mendy, affermatosi come il miglior portiere della scorsa Champions League con il Chelsea. Se il Senegal ha abbassato la saracinesca durante il torneo disputato in Camerun, incassando solamente due reti in sette partite, il merito è anche suo, autore di almeno un paio di interventi prodigiosi su Salah, senza contare il rigore neutralizzato a Mohanad Mostafa Lasheed, che ha messo sui piedi di Mané il pallone della storia. Il fuoriclasse del Liverpool, che nel 2017 aveva condannato il Senegal all’eliminazione ai quarti di finale con il Camerun, ha fatto poi il resto, esorcizzando lo spauracchio Gabaski con il ghiaccio nelle vene, mentre intorno a lui si preparava una festa attesa da sessant’anni.