Antonio Conte uno di noi

Conte ha una capacità unica di farsi amare dai suoi tifosi, trascendendo l’idea di tradimento. Da Lecce a Bari, da Torino a Milano, da Chelsea a Tottenham.

Me lo ricordo esposto al sole, quasi come fosse un presagio favorevole, quello che potrebbe essere uno degli stendardi più curiosi mai visti in uno stadio. Era una carta di identità replicata su grande scala, di quelle vecchie, cartacee, con tutti i dati giusti, al posto giusto. Nel riquadro della foto c’era il faccione sorridente di Antonio Conte. Lì dove c’era scritto “luogo di nascita”, era stata cancellata la parola “Lecce”, con una grande X proprio al centro, e sostituita, a mo’ di correzione grossolana con un pennarello, la parola “Bari”. Era la stagione 2008/09, quella in cui Antonio Conte avrebbe festeggiato il suo primo trionfo da allenatore. Stava riportando, a distanza di otto anni, il Bari in Serie A. E in pochi, soltanto qualche mese prima, lo avrebbero sospettato.

Conte era arrivato a Bari da perfetto sconosciuto, o quasi, in veste di allenatore. Nella sua carriera aveva allenato solo una volta, ad Arezzo: se n’era andato una volta, poi era stato richiamato, aveva infilato un filotto di risultati utili, ma non ce l’aveva fatta, pur rimanendo in corsa fino all’ultima giornata, a evitare la retrocessione in C. Non era nemmeno questa, però, la perplessità più grande che aleggiava intorno ai tifosi del Bari. Insieme al sentimento di rassegnazione che era montato nei confronti della squadra, reduce da uno 0-4 contro il Lecce pochi giorni prima di Natale, si stava facendo largo un senso di disorientamento diffuso. Un derby perso nel peggiore dei modi, una squadra e una società sull’orlo dell’autodistruzione, e adesso pure un allenatore leccese?

L’allora direttore sportivo del Bari, Giorgio Perinetti, conosceva molto bene Conte. Si erano incontrati alla Juventus, e poi si erano ritrovati a Siena, dove Conte aveva svolto il ruolo di vice di De Canio. Nella sua autobiografia, il tecnico racconta come il rapporto con Perinetti era di stima reciproca, tanto che non aveva fatto mistero di essere interessato a un’eventuale chiamata da parte del Bari. «Ma sei di Lecce, Antonio, come faccio?», avrebbe risposto Perinetti. Qualche mese dopo, con il tecnico Materazzi che si era fatto da parte dopo quel famoso 0-4, il ds avrebbe ripreso in mano il telefono e composto quel numero: «Sei ancora interessato?».

Conte non ci avrebbe messo molto a portare i tifosi baresi dalla sua parte. Era una questione di risultati, ma pure di fiducia. Fidarsi di Antonio Conte, questo hanno fatto quei tifosi. Man mano che la squadra si ridestava da un sonno profondo, lo stadio ricominciava a riempirsi. Striscioni e stendardi con il suo nome, un coro tutto per lui. La scenetta che ormai è famosa ben oltre Bari, il tifoso che nel corso dell’allenamento incita a gran voce Conte dicendogli “Mourinho in confronto a te è Platinette”. Una simbiosi totale: l’allenatore, uno che è di passaggio per il mestiere stesso che fa, che diventa parte di un tutto. Conte che a Mantova, in una trasferta in cui non poteva andare in panchina perché squalificato, segue la partita dalla curva dei tifosi baresi. Antonio Conte uno di noi.

Negli anni a venire, Conte si sarebbe imposto come uno degli allenatori più vincenti d’Europa, uno con la nomea di risollevare squadre morte o moribonde, di riportarle al successo, di restituirle linfa vitale. Ci sono allenatori che possono incantare più di lui, che possono proporre un gioco più delizioso e sofisticato, ma questa capacità tutta contiana di ricostruire dalle ceneri è indubbiamente la promessa che più scalda il cuore di tifosi rassegnati e intristiti. La figura di Conte ha una presa totalmente diversa riguardo a qualsiasi altro allenatore: è una garanzia di successo, è l’ipoteca più solida che possa esserci sul futuro a breve termine della propria squadra del cuore.

I tifosi del Tottenham si sono immediatamente innamorati di lui. Non puoi non rimanere affascinato dall’aura di conquista che aleggia attorno al tecnico italiano, soprattutto se la tua squadra, in questo caso gli Spurs, non vince nulla da più di un decennio, e non parliamo dei trofei importanti. Nelle prime dieci partite di Premier con Conte in panchina, il Tottenham ha vinto sei volte. Il quarto posto non è più un miraggio ma una prospettiva concreta. E la possibilità di conquistare titoli non sembra più preclusa a una tifoseria abituata a veder festeggiare gli altri. Ma l’eccitazione che accompagna una figura così ingombrante del calcio contemporaneo non si limita agli aspetti tecnici.

“Antonio Conte mangia spaghetti, beve Moretti e odia il Chelsea”, è il coro che risuona tra i tifosi del Tottenham. È bastata una manciata di settimane perché i fan degli Spurs ricalcassero il copione di quelli del Bari: Antonio Conte è uno di noi, la sua carta di identità, il suo passato, diventano insignificanti, roba superata. Lo stesso Conte che fino a qualche anno fa era la garanzia dei trionfi del Chelsea, oggi diventa uno degli ostacoli principali perché questo non avvenga più. “Odia il Chelsea”, appunto. Nessun imbarazzo per il suo passato. Il pubblico del Tottenham più volte ha scandito dagli spalti “Antonio! Antonio!”, accettandolo immediatamente come beniamino collettivo.

Questa totale immedesimazione con il club che allena è uno dei tratti distintivi più peculiari di Conte. Inevitabile rivangare la dicotomia più famosa e ancora oggi più divisiva: quella tra Juventus e Inter. Quando era ancora allenatore dei bianconeri, il tecnico salentino disse: «Io sono un professionista. Se allenassi l’Inter, ma anche il Milan o la Roma, ne sarei il primo tifoso». Conte non ha mai nascosto di amare la sfida, e se la sfida lo porta altrove, per non dire dalla parte “opposta” del suo abituale schieramento, non c’è nulla che possa frenarlo.

Trovo che in una cultura del calcio irreggimentata, ancorata a vecchi cliché, dove si insegue invano il mito di una presunta purezza, la figura di Conte sia di esempio. Senza farsi trascinare da ipocrisie stantie, il calcio passa anche da questo: mettersi alla prova, trovare nuovi stimoli, “tradire”, se necessario. La disinvoltura con cui Conte cambia squadra, fazione oserei dire, senza che questo si ripercuota negativamente sulla sua reputazione, è un fatto significativo. Ci sono allenatori che probabilmente ne vorrebbero emulare le scelte di carriera, ma non riescono a farlo, e quand’anche ci riescono le loro manovre sembrano sospette, losche forzature.

Antonio Conte ha saputo spiegarlo ovunque sia andato: io sono dalla tua parte, oggi. Ma domani potrei essere altrove. Nella sua carriera da tecnico si è legato brevemente: non è mai andato oltre i tre anni. Non proprio l’identikit di un tecnico alla Simeone o alla Ferguson, di quelli che si possono giustapporre a un club, a un’identità di squadra. A lui basta un tocco, una scintilla. Inevitabilmente ti senti pervaso del suo stesso spirito. Forse c’entra anche il suo modo di vivere le partite, di come ne è coinvolto. È lo stesso modo in cui i tifosi vivono le partite. E poi le esultanze: ce ne sono di straordinarie, ma cosa può superare quando fece il matto da ct della Nazionale contro la Spagna agli Europei, una tale foga da finire persino con il labbro sanguinante? Certi momenti meriterebbero davvero delle celebrazioni del genere, e questo probabilmente ci riporta alla memoria i nostri comportamenti, infantili, primitivi magari, ma indubbiamente genuini. Di chi davvero tiene a cuore qualcosa.

Diventa impossibile perciò non lasciarsi influenzare dall’eccitazione che Antonio Conte porta ogni volta con sé. Sai che darà tutto per la tua squadra, perché lo vedi, lo percepisci. Non è detto che i risultati arriveranno, anche se finora è stato vero sempre il contrario, e magari dopodomani se ne andrà sbattendo la porta. Anche quello fa parte di un’istintività da “tifoso”, più che da dipendente lautamente pagato. Nessuno si è messo a ridere quando Conte, fresco scudettato con l’Inter, si è detto il “primo tifoso di questa squadra”. Nessuno glielo ha rinfacciato quando ha salutato. Personalmente, tutto finì in un caldo giorno di giugno: soltanto un mesetto prima aveva festeggiato la A con il Bari, eppure quel pomeriggio si ritrovò confuso e incazzato dopo un incontro con la proprietà. Si sfasciò la mano contro una porta, e sparì. Chissà come sarebbe andata se fosse rimasto. È un pensiero che fa capolino di tanto in tanto. Ma qualcosa è rimasto. Antonio Conte è, ancora, uno di noi.