Il Bayern Monaco è l’utopia ultraoffensiva di Julian Nagelsmann

L'ex allenatore del Lipsia sta giocando in maniera a dir poco azzardata con i suoi talenti in attacco, schierandoli tutti in campo. Contemporaneamente.

Lo scorso 5 febbraio, nel corso della conferenza stampa postpartita di Bayern Monaco-Lipsia, quando si è trattato di spiegare le ragioni dietro la scelta di schierare una formazione follemente offensiva contro la quarta in classifica, Julian Nagelsmann si è limitato a dire che «in questo momento non intendo sacrificare nulla della fase offensiva. Certo, mancando Davies avrei potuto schierare una linea con quattro difensori centrali ma questo non è il mio tipo di approccio al calcio». In una gara rimasta in bilico fino all’ultimo, Nagelsmann aveva schierato il Bayern Monaco con una specie di 3-4-2-1 in cui Pavard e Lucas Hernández erano i due braccetti nella difesa a tre di fianco a Süle, Coman e Gnabry erano gli esterni a tutta fascia che allargavano e restringevano il campo a piacimento garantendo ampiezza e profondità, Müller e Sané erano i trequartisti che attaccavano la fascia centrale alle spalle di Lewandowski. Davanti alla difesa c’erano Kimmich e Tolisso. «È stata una partita bella e interessante», ha detto il tecnico del Bayern, «Per quanto mi riguarda c’è stato un solo dettaglio fuori posto, soprattutto nel primo tempo: cercavamo il gol con ogni singolo attacco, anche quando avremmo dovuto essere più pazienti. Nel secondo tempo siamo migliorati anche sotto questo aspetto».

Questa necessità, anzi questa urgenza di voler segnare a ogni singolo possesso, è connessa a quell’ideale di squadra robotica che ormai associamo naturalmente al Bayern. Un’entità ulteriore e superiore che, proprio come i programmi senzienti di Matrix, esiste solo in funzione dello scopo per cui è stata creata – cioè vincere realizzando il maggior numero di gol possibili – e che traduce questa sua volontà di potenza in moduli sempre più spregiudicati, in squadre utopiche e ultraoffensive composte da giocatori totalmente mentalizzati al raggiungimento di quel fine con quel mezzo: «Non importa quale sia il punteggio: il nostro obiettivo è sempre quello di continuare a far gol», disse Leroy Sané a settembre dopo un 7-0 al Bochum.

In realtà quello che poteva sembrare una sorta di oltraggio al pudore, l’estrema manifestazione dell’hybris di chi è più forte, sa di esserlo e sa di potersi permettere tutto in un campionato chiuso ancor prima di iniziare, non era altro che un esperimento necessario, un passaggio dovuto sulla strada del miglioramento continuo e della ricerca del sistema perfetto per un livello competitivo superiore. Qualcosa per cui vale la pena correre qualche rischio,  anche a costo di perdere punti in gare abbordabili. Come ad Augsburg il 19 novembre (2-1 per i padroni di casa), come a Bochum sabato scorso, nella seconda sconfitta in un mini ciclo di cinque partite in cui i bavaresi sono sembrati, se non vulnerabili, quanto meno umani nel lasciar andare quelle gare che non si sono messe subito sui binari previsti. «Abbiamo giocato un brutto primo tempo», ha detto Nagelsmann domenica scorsa dopo il 4-1 incassato contro il Bochum. «Avevamo un piano partita che non ha funzionato, però non me la sento di criticare la mia squadra. Io stesso avrei dovuto reagire prima e apportare i correttivi necessari. Nel secondo tempo abbiamo giocato meglio ma non è bastato, era già troppo tardi».

A Bochum il Bayern è sceso in campo con un più canonico 4-1-4-1 in cui Kimmich era il pivote davanti alla linea formata da Pavard, Süle, Upamecano e Hernández, mentre a Thomas Müller è stato assegnato il compito di far progredire l’azione in verticale, occupando gli spazi alle spalle della seconda linea di pressing avversaria. Il gol in apertura di Lewandowski lasciava presagire il solito pomeriggio del Bayern in Bundesliga, una partita caratterizzata da un dominio inevitabile e a tratti persino desolante, ma le successive difficoltà di Süle e Upamecano di mantenere la linea alta hanno generato quegli spazi in cui le punte e le mezzali del Bochum hanno banchettato a piacimento. Un bug di sistema che si era verificato anche contro il Lipsia, in occasione del gol del 2-2 di Nkunku all’Allianz Arena, quando Laimer si era trovato completamento libero sulla trequarti offensiva dopo il recupero palla, con tutto il tempo del mondo per pensare, cercare e trovare il filtrante sulla traccia interna a tagliare fuori la corsa all’indietro di Süle. «Quella situazione», aveva spiegato Nagelsmann, «la potevamo prevenire. Il fatto che non ci siamo riusciti mi infastidisce parecchio, perché si tratta di qualcosa che avevamo studiato, che faceva parte del nostro piano partita. Pavard doveva uscire in chiusura e invece ha temporeggiato troppo» .

Non è, perciò, solo una questione di cali di concentrazione fisiologici e naturali, di quelli che portano a sconfitte anche fragorose – come lo 0-5 rimediato a Mönchengladbach in Coppa di Germania. Il punto è che ricondurre – e quindi ridurre – la figura di Nagelsmann a quella dell’allenatore che deve vincere trofei significa alimentare un cortocircuito narrativo, fa equivocare il compito che l’ex tecnico del Lipsia deve provare a portare a termine al Bayern. Nel maggio del 2021, Jonathan Wilson scrisse sul Guardian che la missione affidata a Nagelsmann rappresentava «l’epitome dell’assurdità del calcio moderno», dato che «per il Bayern ormai sono poche le partite che contano realmente, e cioè quelle partite in cui Nagelsmann deve ancora dimostrare il suo valore». Ovviamente il giornalista inglese parlava delle quattro/cinque gare della fase a eliminazione diretta di Champions League, eventi in cui il giudizio valoriale sulle capacità dell’allenatore di un top team risulta strettamente legato alla componente episodica più che a quella relativa allo studio, al lavoro quotidiano sul campo, alla progettualità a medio-lungo termine.

Si tratta di una visione ingiusta, estrema, eppure comunemente accettata; Nagelsmann ne è consapevole – «Qui al Bayern tu devi avere successo: se non accade devi essere pronto a conseguenze ben più gravi di quelle che affronteresti altrove», disse in una delle sue primissime conferenze stampa – e quindi la affronta estremizzando a sua volta la ricerca del compromesso tra il gioco di posizione implementato da Guardiola e la ricerca ossessiva della verticalità imposta da Hansi Flick, trasformando la Bundesliga nel laboratorio dove condurre i suoi esperimenti alla scoperta dall’alchimia perfetta e vincente anche per il livello superiore – anzi forse solo per quel livello, sfruttando il vantaggio di poter andare al di là di un risultato, la vittoria del campionato, che otterrebbe in ogni caso. Avendo questa “valvola di sicurezza” sempre a disposizione, è come se il laptop trainer più estremo di tutti cercasse di complicarsi le cose di proposito pur di uscire da una comfort zone che diventerebbe altrimenti inevitabile, pur di prepararsi al momento in cui quella stessa valvola di sicurezza non potrà più essere attivata: «Se ogni giorno ti limiti a fare le stesse cose non sarai pronto nel momento in cui il contesto intorno a te cambierà. Quindi è importante che i giocatori sappiano a cosa vanno incontro man mano che la stagione va avanti» disse a ottobre in un’intervista rilasciata al Times.

Per realizzare l’utopia personale e collettiva connessa all’idea di un Bayern che fa il Bayern anche contro Liverpool, Ajax, Real Madrid e Manchester City, Nagelsmann ha preso il 4-2-3-1 di base e lo ha di volta in volta rimodulato in versioni sempre più offensive e spregiudicate del 3-2-5 che si configura in fase di possesso. Il punto di partenza, oltre alla costante ricerca dell’uomo tra le linee, è la prima costruzione con il 3+2: a inizio stagione, quando costruiva dal basso, il Bayern si affida ai triangoli Pavard-Upamecano-Goretzka a destra e Hernández-Upamecano-Kimmich a sinistra, con il terzino francese spesso impiegato da centrale atipico per coprire lo spazio alle spalle di Davies; recentemente però, complici anche la lunga assenza del canadese e i problemi fisici di Goretzka, Nagelsmann sta sperimentando una variante inedita del doble pivote, chiedendo talvolta anche a Thomas Müller di sobbarcarsi il duplice compito di iniziare e far progredire l’azione in verticale alzandosi di venti metri nello spazio alle spalle della prima linea di pressione, mettendosi così in condizione di ricevere da Kimmich. Che resta, quindi, il solo centrocampista al di sotto della stessa. Quello che viene a formarsi è perciò un 3-1-5-1 in cui Müller/Goretzka va ad aggiungersi ai trequartisti che agiscono nella zona centrale, aumentando le opzioni e le linee di passaggio in verticale nell’ultimo terzo di campo. L’uomo chiave, a quel punto, diventa Leroy Sané: l’ex Manchester City è il giocatore di trama e ordito che ha permesso a Nagelsmann di ovviare all’assenza di Davies inserendo un altro esterno offensivo, sfruttando la sua capacità di ricevere, creare occasioni e generare superiorità – numerica e posizionale – nel momento in cui l’azione si sviluppa dinamicamente fronte porta.

Alla data del 27 ottobre 2021, il Bayern aveva già segnato 33 gol in nove partite di Bundesliga

Questa variante del 3-2-5 risulta particolarmente efficace anche perché in grado di adattarsi fluidamente alla contromisure adottate di volta in volta dagli avversari. Quando si è trattato di fronteggiare squadre che si sono affidate a lunghe fasi di difesa posizionale per blocchi bassi, la chiave tattica si è sostanziata nei movimenti di Lewandowski a tirare fuori uno dei centrali e a liberare lo spazio per l’inserimento senza palla di Müller, oppure nella connection Müller-Lewa-braccetto della difesa a tre che permetteva all’esterno offensivo di tagliare dall’esterno verso l’interno e di ricevere in situazione dinamica nello spazio tra terzino e centrale; quando, invece, il Bayern ha affrontato squadre che cercavano di togliere ampiezza, magari attraverso l’utilizzo di un 3-5-2 o un 4-4-2, la scelta è stata quella di sovraccaricare il lato in zona palla per poi cercare il taglio dell’esterno opposto o, alternativamente, occupare la fascia centrale con una sorta di 1-3-1 che favorisse il successivo isolamento dei laterali, lasciati liberi di puntare il diretto avversario con numerosi metri di campo da attaccare palla al piede.

Di fatto, se immaginassimo di dividere il terreno per fasce verticali – ciò che fece Guardiola in uno dei suoi primi allenamenti in Germania, come raccontato da Marti Perarnau nel libro Herr Pep – questo sistema permette al Bayern di occupare ciascuna di queste fasce con almeno tre uomini, grazie anche ai “contrappesi” che Nagelsmann apporta per garantire il necessario equilibrio sui due lati del campo: talvolta affiancando a Kimmich un mediano dalle caratteristiche più conservative come Tolisso, talvolta impiegando Süle come esterno basso o chiedendo alternativamente a Pavard e Hernández di compensare le corse in profondità dell’omologo sul lato opposto con un’interpretazione più “bloccata” del ruolo.

Gli highlights di Bayern-Lipsia 3-2

Naturalmente, perché tutto funzioni, è necessario che le fasi di pressing e riaggressione avvengano nei modi e nei tempi previsti, soprattutto per ciò che riguarda la dimensione fisica e atletica del fondamentale, vale a dire la criticità che è parzialmente emersa nelle ultime due partite prima del ritorno della Champions League. A fine ottobre, quando la stagione del Bayern raccontava di 11 vittorie in 13 partite a fronte di 57 gol fatti e appena 9 subiti, Bill Connelly scrisse su ESPN che «finché il gegenpressing del Bayern funziona come contro il Leverkusen risulta difficile immaginare che possano perdere punti. Ma in teoria non è possibile giocare sempre a questo livello di intensità e, in circostanze normali, potrebbero sorgere dei problemi difensivi».

Quello dell’intensità in non possesso, in effetti, rischia di diventare il discrimine che separa una stagione normale da una trionfale, oltre che il principale filtro narrativo sull’effettivo impatto di Nagelsmann in un contesto così sovradimensionato, così “larger than life” dal punto di vista culturale prima ancora che sportivo: «Non è necessario fare una rivoluzione ma semplicemente apportare delle modifiche nelle poche cose che non funzionano» disse a inizio stagione alla rivista Kicker. Eppure è proprio dalle piccole cose che le rivoluzioni nascono e crescono. E a Julian Nagelsmann è stato chiesto proprio questo: fare la rivoluzione laddove non ce ne sarebbe nemmeno bisogno. Perché al Bayern Monaco, dove tutto è in perenne divenire, funziona così.