Il primo giocatore che gli si avvicinò per provare ad agganciarlo, mentre accennava una progressione, cadde giù, come scaraventato a terra da una mossa di judo. Adriano non aveva ancora accelerato, ma l’avversario gli era comunque rimbalzato addosso. Dopo uno scambio con Stankovic, ricevette di nuovo al limite dell’area, con due difensori del Basilea davanti. Mentre lo spazio tra i loro corpi si restringeva, lui sterzava e passava in mezzo: uno lo bruciò subito, l’altro crollò appena trovò il contatto con la spalla. Da terra, provava a ostacolarlo, ma Adriano lo superò con lo stesso affanno con cui ci si scrolla di dosso una ragnatela, allungò anche sul portiere e rilasciò il suo solito tiro potentissimo, sotto la traversa.
Per un anno, il 2004, Adriano è stato Mbappé, o Haaland, o qualsiasi giocatore che tra i confini del proprio corpo lascia intravedere tutto ciò che serve per determinare da solo una partita di calcio. Ogni suo tiro che piegava le mani al portiere, ogni sua dimostrazione di potenza pura e arbitraria con cui decideva l’esito di un’azione o di una partita, era un atto quasi violento nei confronti di una realtà spiacevole: era il calciatore perfetto per l’Inter. Dopo essere arrivato a gennaio dal Parma, nel finale di stagione aveva trascinato fisicamente l’Inter di Zaccheroni ai preliminari di Champions: contro l’Empoli, dopo una doppietta nella partita decisiva, Adriano si tolse la maglia e mostrò un fisico asciutto e tirato. I tratti del suo volto conservavano un aspetto concentrato e gentile, come se riporre quella potenza incontrollabile gli costasse uno sforzo minimo. A Basilea, per la prima volta, invece che gioire o ascoltare il boato dei suoi tifosi accompagnare il gol, come una raffica di vento che segue il terremoto, mandò un bacio verso il cielo.
Era l’agosto del 2004, quando Adriano ricevette la chiamata che lo informò che suo padre, Almir, era morto. L’Imperatore era a Bari, dove aveva da poco giocato uno triangolare estivo, ed era ancora insieme alla squadra. Javier Zanetti ricorda di averlo visto lanciare il telefono a terra, gridare e scoppiare in un pianto disperato. Per quanto avesse vissuto un paio di vite in più rispetto a molti dei suoi compagni, Adriano aveva solo ventidue anni. Da quel momento in avanti della sua vita, prima ancora che della sua carriera, avrebbe dovuto convivere con quello squarcio sul petto e provare a ricucirlo senza avere gli strumenti. Dalla notte di Basilea a Natale segnò quattordici gol in campionato – tra cui quello all’Udinese, un coast to coast indimenticabile – e poi altri due al ritorno del preliminare di Champions contro gli svizzeri e quattro nelle altrettante partite che gioca nei gironi. Poi, dopo la rete col Siena, si spense di colpo. Anni dopo avrebbe raccontato come in quell’autunno, vissuto interamente a Milano e al seguito della squadra, se non per qualche rapido ritorno in Nazionale, non avesse ancora realizzato del tutto che suo padre non c’era più. «Mi accorsi della sua assenza qualche tempo dopo», disse. «Cominciai a soffrire quando tornai in Brasile per le ferie: lui non c’era e avrei avuto tanta voglia di stargli vicino». Le cose iniziarono a precipitare tutte insieme: prima andò incontro a un infortunio muscolare nel suo momento migliore, poi, a gennaio, diventò protagonista del genere letterario più appiccicoso del calciomercato italiano, l’intervista rilasciata in un’altra lingua. Adriano avrebbe dichiarato alla televisione spagnola che giocare nel Real Madrid sarebbe stato un sogno; la dirigenza nerazzurra lo difese e accusò i blancos di aver usato i media per tendergli una trappola, lui ingenuamente negò tutto e giurò di aver cercato il modo più gentile, forse anche troppo, per passare oltre. Qualcuno glielo rinfacciò dopo un derby perso e guardato quasi interamente dalla panchina per volere di Mancini, perché da due mesi e mezzo, aveva smesso di segnare.
Tutti aspettavano una scintilla, che arrivò la sera del 15 marzo, quando Adriano tornò ad abbattersi come un meteorite su una partita. Era il ritorno dell’ottavo di Champions League contro il Porto. Gli bastarono sei minuti per trovare il primo gol, su deviazione, ma era una di quelle partite in cui sembrava voler lasciare il segno su ogni pallone, più che limitarsi a deciderla, e ne fece altri due bellissimi. Dopo il primo, cercò la telecamera e si portò l’indice alla bocca, per intimare di far silenzio, poi alzò la maglia e mostrò la scritta “Filipesi 4,13”, ovvero, un passo delle lettere di San Paolo ai Filippesi: «Io posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica». Qualche giorno dopo avrebbe spiegato che il gesto era indirizzato ai giornalisti che lo avevano bersagliato durante il suo periodo difficile. Nonostante quella straordinaria dimostrazione di forza, avrebbe chiuso il girone di ritorno con soli due gol. Quei mesi, fatti di pressioni, attese deluse, polemiche, apparenti rinascite e, infine, cadute, Adriano li avrebbe rivissuti in loop fino alla fine della sua carriera, spegnendosi anno dopo anno.
La cosa più bella ed empatica che si legge sui giornali di quei giorni è una lunga lettera di Gianluca Vialli pubblicata sulla Gazzetta, in cui si rivolge ad Adriano raccontandogli la sua storia e dicendogli, in sostanza, di avere pazienza e continuare a impegnarsi, perché anche lui è passato attraverso molti dei suoi turbamenti e le cose si sistemano solo così. Il problema è che essere un ventenne nel corpo di una macchina da gol e dover gestire l’impatto che questo genera sulla sua vita era solo una minima parte di ciò che stava vivendo Adriano. Sarà proprio lui, anni dopo, a spiegare di essere stato affetto da una depressione sviluppata in seguito alla morte di suo padre e confessare, dopo il suicidio di Robert Enke, di aver anche pensato, in alcuni momenti, di togliersi la vita. La depressione ha Adriano e lo ha costretto a poggiare i piedi su un terreno instabile e freddo, lo ha obbligato a fare il doppio della fatica a mantenere l’equilibrio tra le pressioni del suo lavoro, gli imprevisti della sua vita personale che percepiva come fallimenti, la sovraesposizione mediatica che lo rendeva ancor più vulnerabile. Tutto questo, tutto insieme, a poco più di vent’anni, nel suo prime tecnico e atletico, ha spazzato via nel giro di un anno o poco più il giovane calciatore più quotato al mondo, come una valanga.
«Litigai con la mia compagna e cominciai a frequentare locali notturni e discoteche, soprattutto provai a scaricare ogni mio problema nell’alcol», avrebbe raccontato nel 2007, in ritiro, in uno dei tanti momenti in cui era convinto di essersi lasciato il problema alle spalle, e provava a convincere anche gli altri. «Bevevo tanto e non potevo più fare a meno di uscire la sera, perché altrimenti non dormivo nemmeno. Stare a casa mi era diventato impossibile». Nella stagione 2005-06 segnò in totale tredici gol, decise un derby con una doppietta, ma rientrò presto in crisi. In quella successiva ne fece solo sei, persi in un volume abnorme di scandali sulla sua vita privata. «Tutto quello che faccio diventa incredibilmente grande», si sarebbe lamentato, sempre con la Gazzetta. «Anche quando incappo in una cosa da nulla diventa eclatante».
Tutti i gol di Adriano con la maglia dell’Inter
Chi credeva più di tutti di poter cambiare questa situazione era Massimo Moratti: al di là del piano umano – anche l’attaccante lo ha sempre considerato una sorta di padre, per l’attenzione con cui teneva da conto sue esigenze – era convintissimo che recuperarlo emotivamente quel tanto che bastava per farlo stare in campo con continuità accettabile gli avrebbe restituito un calciatore fuori scala. Fu proprio lui il primo a parlare esplicitamente di depressione, ad affidarlo prima a uno psicologo italiano – anche se qualche tempo dopo Adriano avrebbe detto di non essersi trovato del tutto a proprio agio, forse anche per via della lingua – e poi a mandarlo in Brasile, in un centro di proprietà del San Paolo (dove finì per giocare un periodo in prestito), per rimettersi a lucido fisicamente e mentalmente: «Mi ha chiesto questa opportunità e io l’ho accontentato. Quando è in forma è l’attaccante più forte al mondo», disse il presidente.
Gestire una situazione del genere non era comunque semplice: secondo i giornali, comprendeva spesso anche farlo riposare in infermeria quando arrivava agli allenamenti in condizioni impresentabili. Mancini, nel suo ultimo anno da allenatore dell’Inter, finì per escluderlo dalla lista Champions. Nemmeno Mourinho, che gli aveva tributato l’onore di riconoscerlo ancora come un potenziale campione, riuscì a spezzare il loop. Il gol di mano nel derby è l’immagine perfetta di quanto Adriano, ormai imbolsito e lontano dai suoi giorni felici, dovesse lottare per galleggiare. La sua storia all’Inter finì due mesi dopo quel gol, quando decise di lasciar partire l’aereo dei brasiliani di ritorno dalle partite con la Seleçao, per Milano, senza di lui. Si persero le sue tracce, in Brasile qualcuno mise in giro la voce che fosse addirittura morto, ma in realtà era a Vila Cruzeiro, e riemerse soltanto per dire che aveva smesso di divertirsi, che aveva bisogno di fermarsi perché non era felice, e che non aveva bisogno di dottori, ma solo del suo Paese e della sua famiglia.
Adriano ha sempre rifiutato la drammatizzazione della sua infanzia. Anche se un proiettile colpi alla testa sua padre per errore quando aveva solo sette anni, non perde occasione per ricordare che da piccolo non ha sofferto, o perlomeno non nel senso in cui lo intendiamo noi, ma è stato felice. È questo che sta alla base dell’incomunicabilità tra noi e Adriano, tra Adriano e la nostra tentazione di raccontare la sua vita nella favela di Vila Cruzeiro come un romanzo di Dickens. Quando pochi anni fa veniva fotografato scalzo su una strada non asfaltata, o mentre un amico gli faceva la barba per strada, con le baracche del nord di Rio sullo sfondo, quasi tutti hanno dato per scontato che fosse caduto in disgrazia. Così come si allude in modo un po’ bigotto alle sue amicizie con alcuni narcotrafficanti di Vila Cruzeiro, di cui non si è mai vergognato, perché sono suoi amici di infanzia, e tra loro «ci sono sia spacciatori che poliziotti».
In realtà, la favela e, più in generale, Rio de Janeiro e il Brasile, sono lo spazio in cui Adriano si libera delle pressioni, il luogo in cui gli riesce un po’ meglio stare in equilibrio. Allo stesso tempo, però, il Brasile, o perlomeno l’ombra del Brasile, l’idea di lasciare Milano, chiudere con tutto e tornare a casa, ha avuto sempre l’aria di una resa di conti con se stesso: il suo Flamengo – con cui ha vinto un campionato dopo aver lasciato l’Inter – e lo stesso San Paolo, non sono state scelte definitive, anzi, lo hanno riportato sempre in Europa, come se dovesse prima chiudere il conto per combattere quel senso di incompiutezza: «La mia volontà è quella di tornare, ma sono titubante. Ho il timore che una volta in Italia tornerò a essere messo sotto pressione», aveva detto dopo i suoi mesi nel club paulista, prima di giocare per Mourinho. D’altra parte, appena tornato in Brasile la prima volta, aveva chiesto di non essere più chiamato “Imperatore”, ma “Didico”, il suo vecchio soprannome brasiliano, come se l’altro trascinasse con sé tutto il fardello di pressioni da cui stava cercando di liberarsi. Nella sua intervista più famosa degli ultimi anni, quella a The Player’s Tribune, lo usa ridendo, forse in modo un po’ amaro, per riassumere tutto il senso della sua vicenda: «Un ragazzo della favela che passa da non aver niente a essere chiamato Imperatore!?». Probabilmente il coro che gli dedicavano i tifosi dell’Inter gli passa ancora per la testa, insieme alla potenza di quei gol, che il suo corpo ha smesso da anni di saper imitare. Di sicuro, ricorda ciò in quei giorni diceva a sua madre: «Eravamo più felici quando non avevamo niente».