Ho iniziato prima a percepire, e poi a comprendere a pieno l’ingratitudine del calcio un po’ tardi, sul finire della quarta liceo. Riesco a essere così preciso perché, come tutti i malati incurabili, misuro gli anni secondo l’andamento delle stagioni di calcio, e la quarta liceo coincideva con la stagione 2001/02, stagione che si sarebbe conclusa con un Mondiale nippo-coreano fatto di scomode partite tra le 8 e le 13, per il quale avevo già programmato un serrato calendario di ultime interrogazioni del quadrimestre, latino chimica francese, in modo da salutare la compagnia al 30 maggio e non perdermi nemmeno il match inaugurale Francia-Senegal. Il piano funzionò, ed è tuttora una delle cose di cui vado più fiero – ma non divaghiamo. Quello doveva essere, e fino a pochi mesi prima nessuna persona di buona volontà aveva dubbi, l’ultimo Mondiale di Roberto Baggio: l’Italia avrebbe giocato l’intera fase a gironi in Giappone, per Roby una seconda casa, e convocarlo sarebbe stato non solo opportuno ma anche molto furbo.
Invece sapete tutti come andò: il grave infortunio in coppa Italia contro il Parma, il recupero a tempi di record ma comunque difficoltoso per un uomo di 35 anni con le ginocchia martoriate, la prudenza di Don Abbondio Trapattoni che preferì evitare di mettersi in spogliatoio un elemento di complicatissima gestione che rischiava di fare ombra alle stelle annunciate Totti e Del Piero e pure a se stesso, cioè a un ct che scivolò via da quel Mondiale tra ottomila rimpianti, in un delirio di prudenza, acquasanta e arbitraggi avvelenati che non gli fece onore. Mascherò il niet a Baggio, inaccettabile per qualunque romantico sedicenne, con pretesti tattici, preferendogli Marco Delvecchio e Angelo Di Livio.
L’ultimo Roberto Baggio (Brescia 2000-2004) ha avuto il potere di riconciliare un popolo che si alimentava calcisticamente (e non solo) a faide e divisioni da molto prima che arrivasse il Grande Fratello – coetaneo della prima stagione bresciana di Roby – a far dilagare nella Penisola le logiche da televoto. Va detto che, diverse volte, lo stesso Baggio non si era sottratto alle schermaglie: senza scomodare l’arcinoto gesto di reazione versus Sacchi dopo la sostituzione contro la Norvegia, appena pochi mesi prima di approdare a Brescia non aveva nascosto di essere ai ferri cortissimi con l’odiato Lippi, tanto da presentarsi un giorno, nella zona mista del Bentegodi di Verona, con un impudente cappellino con su scritto “Matame si no te sirvo”. Sempre a Verona si era congedato dall’Inter e dal calcio metropolitano con una poetica doppietta a Buffon nello spareggio-Champions contro il Parma, che era stato glorificato dalla Gazzetta con un 10 in pagella che sapeva di omaggio alla carriera. Si era allenato da solo per tutta l’estate 2000, mentre le gazzette raccontavano di poco irresistibili aste tra Brescia, Reggina e Udinese per mettersi in casa quest’anticaglia di valore e alzare un po’ di abbonamenti; l’avevano spuntata Corioni e soprattutto Mazzone, uno dei pochi allenatori che non aveva paura dell’ombra di Roby.
Gli splendidi quattro anni di Brescia, non tanto nei risultati (una sola qualificazione all’Intertoto, sfumata in finale contro il PSG) quanto nella scenografia, fecero tornare all’ovile tutti i baggiani dispersi nei sentieri di montagna delle due difficili esperienze milanesi, inframezzate dalla troppo breve parentesi bolognese da 22 gol, e fecero dimenticare che Baggio, lungo il corso degli anni Novanta, era stato più volte considerato come un appestato, sacrificato da allenatori grandi e piccini sull’altare della tattica secondo logiche tutte da verificare, e ha vissuto in pieno la celebre parabola disegnata da Alberto Arbasino: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro.
L’imminenza del tramonto ha portato tutti quanti sulla spiaggia, curiosi di vedere com’era. E hanno visto delle cose magnifiche: un gol direttamente da calcio d’angolo (Lecce, 5 maggio 2001), il controllo a seguire più sublime della storia della Serie A nel ventunesimo secolo (Juventus-Brescia, 1° aprile 2001), una tripletta che innescò il regolamento di conti tra Mazzone e l’intera curva dell’Atalanta (Brescia-Atalanta 3-3, 30 settembre 2001), Pep Guardiola che si toglie la fascia da capitano per darla a lui che sta per tornare in campo a meno di tre mesi da un crociato rotto (Brescia-Fiorentina, 21 aprile 2002), il duecentesimo gol in serie A (Parma, 14 marzo 2004), l’ultima passerella in azzurro contro la Spagna (Genova, 28 aprile 2004), un pallonetto celestiale su cui non ha mai avuto la pretesa del copyright, per esempio chiamandolo cucchiajo (Brescia-Atalanta, 6 aprile 2003).
In effetti Baggio non ha nemmeno un colpo “alla Baggio”, un dribbling alla Cruijff, un elastico alla Ronaldinho, un tiro alla Del Piero, un tiraggiro alla Insigne, una maledetta alla Pirlo… è stato solo e semplicemente Baggio, elementare, con un repertorio sconfinato evidente anche a un bimbo. Al di là dei 46 gol in 101 partite, media-gol pazzesca per un numero 10 dai 33 ai 37 anni (nei suoi quattro campionati a Brescia è sempre andato in doppia cifra), le vivaldiane Quattro Stagioni di Baggio sono state una lunga vacanza da tutto il veleno che si respirava nel calcio italiano di inizio millennio e che ben ricordiamo. Una vacanza di cui s’è giovato anche lui, finalmente indiscutibile, intoccabile per gli allenatori come avrebbe sempre dovuto essere, visto che anche le sue prodezze Mondiali erano sempre state all’insegna di un duello, una rivalità, un risvolto polemico che lui non si sognava nemmeno di cavalcare ma che esisteva suo malgrado, perché Baggio era politico nel senso etimologico del termine: relativo alla polis, alla città-stato, cioè a tutti noi. Così il Baggio di Brescia è stato accompagnato anche dalla sensazione del tempo sprecato, come quando ci si accorge di una cosa importante solo da vecchi. Dualismi con cui ci siamo avvelenati la vita invece di goderci l’abbondanza di una Nazionale che poteva scegliere contemporaneamente tra Mancini, Zola, Totti, Del Piero e Baggio – ricordiamoci anche di questo, ora che siamo costretti a naturalizzare Joao Pedro e scongelare Balotelli per strappare un pass Mondiale (a proposito, anche lì, nove gol in tre edizioni come Vieri e Paolo Rossi, e stiamo sempre aspettando qualcuno che faccia meglio).
Tutti i gol di Roberto Baggio al Brescia
Infine, sul far della sera, Baggio ha avuto l’intelligenza, nient’affatto comune nel calcio, di capire che c’è un tempo per ogni cosa. C’è una bellissima battuta dello scrittore Marcello Marchesi: «L’importante è che la morte ci colga vivi». Il ritiro – ovvero la morte di un atleta – ha colto Baggio vivissimo: appena una settimana prima aveva giocato un partitone contro la Lazio e nella sua ultima uscita a San Siro contro il Milan era stato ampiamente all’altezza dei campioni d’Italia. Non si è lasciato consumare dalla testardaggine di continuare, come tanti suoi colleghi pari-ruolo. È sparito dalla circolazione un minuto dopo, riemergendo con un unico incarico che ha avuto uno sviluppo quasi provocatorio, come il periodo panelliano di Lucio Battisti: nominato da Abete capo del settore tecnico della FIGC, stilò un programma di 900 pagine rimasto ovviamente lettera morta e di fronte alla reazione gelida dei suoi superiori tolse volentieri il disturbo. Ma non è nascosto da nessuna parte, né è inaccessibile: lo trovate comodamente nel mondo reale, nel buen retiro ad Altavilla Vicentina dove riceve poche selezionate visite: l’ultima è stata quella di Alessandro Cattelan che l’ha intervistato per “Una semplice domanda”, la sua indagine sulla felicità in uscita su Netflix a marzo. Però è assai probabile che Baggio non abbia nulla di scottante o clamoroso da rivelare: anche Il Divin Codino, il film uscito la scorsa primavera più che brutto era impalpabile, talmente leggero da non lasciare nulla tra le dita, esattamente come da volontà del suo protagonista. “Avete bisogno di me? Ricordatemi con Youtube, le vecchie videocassette, un ritornello di Cesare Cremonini, non aspettatevi che io vada in giro ad autocelebrarmi come una specie di Buffalo Bill col codino grigio”.
Compie oggi 55 anni, la stessa età che aveva un altro grande eremita, il suddetto Lucio Battisti, quando nel 1998 lasciò questa valle di lacrime senza in realtà lasciarla mai davvero. Naturalmente non siamo così scemi da augurargli un epilogo simile, però la sequenza delle più belle punizioni di Baggio, spedite all’incrocio in tanti pomeriggi italiani di primavera, vien voglia di vederla con il sottofondo de “La Canzone del Sole”. Auguri.