Cinque domande a Dorothea Wierer

È il simbolo del biathlon italiano, e a Pechino ha conquistato la terza medaglia olimpica della sua incredibile carriera.

Dorothea Wierer non ha ancora compiuto 32 anni, li festeggerà il prossimo 3 aprile, ma è entrata già da molto tempo nella storia del biathlon italiano e mondiale. L’ha fatto passando dalla porta principale, quella che attraversano quegli sportivi capaci di segnare il tempo, di fissare primati assoluti e perciò difficilissimi da eguagliare. Figurarsi da superare. Nell’ordine: è l’unica biatleta donna del nostro Paese ad aver vinto una medaglia olimpica individuale (il bronzo nello sprint, a Pechino 2022) e uno o più ori individuali ai Mondiali (tre, per la precisione: la partenza in linea a Östersund 2019, l’inseguimento e l’individuale 15 km ad Anterselva 2020); è anche l’unica italiana ad aver vinto la sfera di cristallo (il nickname della Coppa del Mondo generale) nel biathlon, considerando anche gli uomini. Inoltre, come se non bastasse, risulta essere la terza atleta di sempre ad aver ottenuto un successo in tutti i sette formati di gara della sua disciplina – prima di lei ci sono riusciti solo due biatleti francesi, Fourcade e Marie Dorin.

A Pechino, come detto, ha vinto un bronzo storico per la Nazionale azzurra. Da un punto di vista più personale, si tratta di un successo che chiude il cerchio aperto a Sochi 2014 e a Pyeongchang 2018, dove Wierer contribuì ad altre due medaglie di bronzo nella staffetta mista. Ora ha già dichiarato che sarà difficile, per lei ma anche per noi, immaginare una sua partecipazione ai Giochi Olimpici del 2026, che si svolgeranno tra Milano e Cortina. Questo, però, non cancella i risultati strepitosi di una carriera unica e che ormai va avanti da tre lustri: il suo esordio risale al 2007, e un anno dopo era già la prima italiana a vincere una medaglia d’oro in una gara individuale ai Mondiali giovanili.

Insomma, è evidente che parlare di Wierer significa parlare di una grande sportiva ma anche di un simbolo, di una persona in grado di ispirare il tempo che verrà dopo di lei, dopo aver segnato il suo. È anche per questo che Omega – l’azienda svizzera che, tra l’altro, misura il tempo e quindi i record di ogni gara delle Olimpiadi Invernali di Pechino 2022 – l’ha scelta come brand ambassador. E poi è proprio lo spirito del biathlon ad avere un rapporto strettissimo col concetto di tempo. È proprio da qui che siamo partiti per una chiacchierata con lei, proprio durante la sua partecipazione ai Giochi Olimpici Invernali di Pechino (la terza della sua carriera).

Ⓤ: In tutti gli sport, la gestione del tempo è un aspetto fondamentale, in alcuni diventa primario. Una biatleta che rapporto ha con questo aspetto? Come gestisce il microtempo?

Il biathlon è uno di quegli sport in cui ogni secondo, anzi ogni centesimo di secondo, è importante. Può fare la differenza tra vittoria e sconfitta. Sono vent’anni che mi alleno e faccio gare, ma è da quando sono diventata professionista che la mia visione è cambiata, allora ho notato che il mio sport è una pura questione di secondi. In un certo momento mi sono accorta di quanto ia difficile tirarne via anche solo uno dalle prestazioni in allenamento e in gara. Un anno puoi metterti in testa di allenarti tantissimo per migliorare, e alla fine ti ritrovi ad aver guadagnato solo pochi decimi sul tuo miglior tempo, o addirittura hai finito per perdere qualche secondo. E poi noi abbiamo anche il tiro, in cui il tempo è un fattore fondamentale eppure ingovernabile: se spari un secondo più veloce del tuo avversario puoi vincere la gara, ma puoi perderla allo stesso modo.

Ⓤ: E invece come che rapporto hai con il macrotempo?  Una biatleta d’élite come scandisce i suoi giorni di preparazione, di allenamento, la sua stagione prima, durante e dopo le gare?

Devo dire che ci alleniamo tantissimo: la preparazione comincia già a maggio e finisce a fine marzo, quindi praticamente stiamo parlando di undici mesi di lavoro. Facciamo più o meno 6-700 ore di allenamento fisico, più altre 200 ore di tiro: facendo qualche calcolo grossolano, direi che spariamo 15mila colpi all’anno. Porta via tantissimo tempo. Inizialmente i due allenamenti sono divisi, separati: endurance e poligono. In questo modo alleniamo la resistenza e poi la precisione con tanti esercizi diversi, per esempio impostiamo i fucili, aggiustiamo la mira. Poi la stagione prosegue e i due tipi di allenamento si uniscono, così a partire da luglio siamo pronti per cominciare a lavorare sull’intensità. Quella parte è fondamentale: noi facciamo le gare con pulsazioni a 180 battiti al minuto e quindi dobbiamo essere super-allenati a questo tipo di pressione. Allo stesso tempo, però, dobbiamo essere pronti a ritrovare lucidità al poligono: quando spariamo, le pulsazioni devono scendere immediatamente, altrimenti noi atleti non potremmo essere precisi.

Ⓤ: È evidente che la determinazione, in allenamento e in gara, siano degli aspetti fondamentali per chi vuole affacciarsi al biathlon. Ma quali sono gli altri valori che distinguono questo sport? Nel rugby il fair play è il valore fondante, nella pallanuoto si esalta l’importanza dello spirito di sacrificio e di squadra. Ecco, sarebbe interessante parlare di questo in relazione alla tua disciplina.

Anche nel biathlon il fair play ha un peso significativo, parliamo di uno degli sport invernali più democratici, è uno di quelli in cui ci sono più nazioni che possono aspirare a salire su un podio mondiale oppure olimpico. Anche come numero di atleti siamo in crescita, e quindi è importante che ci sia un ambiente competitivo ma sano. Dal punto di vista personale, io credo che la cosa più importante da sviluppare e quindi da allenare sia un mix di motivazione e freddezza: il biathlon è uno sport di endurance, ma allo stesso tempo c’è il tiro. È come se noi biatleti avessimo una doppia anima: nello sci di fondo devi partire e andare a tutta, mentre al poligono devi essere preciso, anche lì super-veloce, ma è una velocità diversa. Poi certo, conta prendere il bersaglio. È chiaro che dipende tutto dalla testa. Devi tener duro, stringere i denti fino alla fine.

Dorothea Wierer è brand ambassador di Omega

Ⓤ: In molte interviste che hai rilasciato in passato, ti sei definita una regolarista, vale a dire una biatleta che si esprime meglio sul lungo, cioè in gare più durature e nelle sfide a tappe, piuttosto che in quelle secche. Credi che sia una predisposizione fisica oppure mentale, da parte tua?

È un po’ nei miei geni: ognuno ha le sue doti e io sono una di quelle atlete che preferisce gare lunghe, non sono una sprinter. Certo, la distanza minima è di sei chilometri, quindi in ogni caso non parliamo di una gara veramente rapida. Dal mio punto di vista è una cosa positiva: carburo con il tempo, aumento la mia forma a ogni gara che faccio. Se dovessi disputare solo le gare secche, come quelle dei Giochi Olimpici invernali, non farei niente. Certo, è anche una questione di pressione: alle Olimpiadi ci sono più pressioni, più aspettative. Se una gara non funziona, l’atleta resta ovviamente deluso, ma lo sono di più anche coloro che lo seguono, che lavorano alla sua preparazione.

Ⓤ: Dopo il bronzo conquistato a Pechino, hai arricchito ancor di più una carriera da atleta-simbolo del biathlon italiano. Come ci si rapporta a questo tipo di dimensione, quindi di responsabilità?

Mi fa piacere aver vissuto una carriera così vincente. Ovviamente non ho vinto niente da sola: dietro di me c’era e c’è uno staff di persone che hanno un ruolo fondamentale nei miei successi. Riconosco che non è sempre facile vivere questa condizione: hai più pressione, proprio perché hai fatto risultati importanti e automaticamente la gente si aspetta grandi cose da te. Non è semplice da gestire, ma certo i miei successi e quelli dei miei compagni stanno avendo anche degli effetti positivi: molti ragazzini vogliono provare, stanno provando il biathlon. Per capitalizzare questa crescita, è importante lavorare molto, a livello federale per aumentare l’attenzione mediatica, ma devono farlo soprattutto gli atlti in allenamento: il talento è importante, ma va coltivato, alimentato tutti i giorni con una grande cultura del lavoro.