Quando arrivava l’estate e i papà potevano portare al mare i ragazzini col pallone, le porte erano le cabine di legno, oppure certi cumuli di sabbia ammonticchiati intorno agli infradito che chiamavamo all’epoca zatterini. Erano quelli i pali e al centro il portiere aveva un solo scopo, tuffarsi e rotolarsi, per poi gettarsi in mare e darsi una ripulita. C’erano quelli che si lanciavano pure là, spericolati, audaci, svolazzavano sull’acqua per catturare la palla a mezza altezza, e dopo precipitavano da lassù sotto le onde, come in genere sapevano fare pure da certi scogli sospesi. Nessuno, nessuno di questi sconsiderati giocava a sentirsi Dino Zoff. Senza sapere cosa si perdevano. Facevano gli eccentrici, gli stravaganti, si erano scelti per modelli i portieri che venivano chiamati ragni neri, kamikaze, gatti volanti. Giocare a parare come Zoff era una cosa per intenditori. Era il feticcio dei padri, era il tipo che ciascuno di loro desiderava potesse diventare un giorno il proprio figlio.
Non c’è un modo migliore per dirlo che con una barzelletta in giro all’epoca. C’è un bambino in pericolo sul cornicione di un palazzo e in quel momento Zoff sta passando di sotto, lungo il marciapiede, in strada. Osserva il crocchio che se ne sta con il naso all’insù, viene riconosciuto, la folla gli chiede di intervenire. Allora Zoff alza la testa e grida al bambino: lanciati, lanciati che ti prendo io. La barzelletta finisce col bimbo che si lancia, Zoff che lo afferra al volo in presa tra le braccia, poi lo palleggia due-tre volte sull’asfalto e gli assesta un calcione per un rinvio, come il portiere faceva a quel tempo portandosi al limite dell’area di rigore, pum, e via. Senza costruzione dal basso.
Più importante della sua comicità, era il messaggio. La barzelletta riproduceva l’esemplare attendibilità che la voce del popolo attribuiva a Zoff. Era l’incarnazione della serietà e un monumento alla fiducia. Per una generazione di bambini e ragazzi cresciuti nei suoi anni, risultava del tutto inconcepibile che potesse commettere un qualunque tipo di errore, figuriamoci se poteva essere fatale. Una volta al San Paolo – era la primavera del 1976 – prese un gol facendosi scivolare dalle mani un calcio di punizione di Boccolini. A nessuno venne in mente di incolparlo. Non era possibile, pensarono tutti. Doveva essere successo qualcosa. Zoff era inviolabile. Aveva tenuto imbattuta la porta della Nazionale per più di mille minuti, gli poteva essere attribuita qualunque impresa, come sanno tutti quelli che hanno visto almeno una volta Il secondo tragico Fantozzi, il film nel quale Paolo Villaggio lo ritiene in grado finanche di segnare un gol di testa contro l’Inghilterra.
Zoff parava per la Juventus ma non era un campione divisivo, come Scirea, come Cabrini, come Tardelli, una generazione di stelle di una parte sola, eppure appartenenti a tutti. Si erano dati la misura e la sobrietà come stile di vita, esultavano senza sciacquarsi la bocca, ma correndo con la testa incassata dentro le spalle (Bettega) oppure inarcando la schiena, alzando le braccia e tirando fuori il petto (Capello). Avvertivano in ogni istante la responsabilità di essere pure giocatori della Nazionale, o come si diceva allora: giocatori dell’Italia. Zoff entrava in molti stadi avversari e salutava la curva come fosse la propria, comunque con la testa bassa, quasi vergognandosi di quel gesto che gli avevano insegnati nei suoi anni a Napoli, quando sentì che poteva disgelarsi un po’. Alzava la mano verso i tifosi e poi scavava un solco, così si usava, tirava una riga sul prato strusciando con le scarpe, dal dischetto fino al centro della porta. Quella linea era una guida. Serviva da riferimento nelle uscite in presa alta, nel cuore dell’area. La terra che si accumulava sotto i tacchetti veniva scossa con un paio di pestoni contro i pali, tong, tong, e dopo questo rituali di gesti perduti, la partita poteva cominciare.
I portieri avevano tutti il numero 1 e quelli di riserva il 12. Ma fare la riserva di Zoff significava condannarsi all’inazione. Si diventava uno spettatore in più. Alcuni dei suoi vice – i Piloni, gli Alessandrelli, i Bodini – hanno confessato di aver sofferto perché lui c’era, lui c’era sempre, non saltava nemmeno una partita, né per infortunio né per sazietà. Zoff era il riflesso calcistico di quel pezzo di Paese uscito dagli anni del boom economico senza aver perso il contatto con il reale, senza passi più lunghi del lecito, con un senso quasi religioso per il proprio lavoro.
Il calcio degli anni Settanta stava diventando per la prima volta un bene primario per gli italiani. La media spettatori della Serie A sfondava per la prima volta le 30mila presenze a partita. Nel 1978 era salita a 34mila. Gli italiani erano disposti a spendere più di prima per andare allo stadio. Il prezzo medio dei biglietti aumentò dalle 1.600 lire del 1970 alle 4.300 lire del 1979. La Rai, ancora in regime di monopolio, ebbe l’intuizione di individuare nel calcio quello che oggi chiameremmo un contenuto. Lo impose come fenomeno di massa con le radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto. Le figurine Panini entravano nella modernità, diventando adesive. Non esisteva più solo il pallone da portarsi al mare o in strada, ma pure il Subbuteo, oppure il più economico Giocagoal, “Il gioco dello scudetto” da tavolo della Editrice Giochi. Se una parola fosse stata scritta all’epoca di Zoff e messa in una bottiglia, per tramandarci il senso della sua esperienza personale e quella collettiva, la parola che oggi arriverebbe sulle nostre sponde sarebbe: semplicità. Zoff era la rassicurante presenza del buon senso nell’Italia spaccata in due dalle battaglie ideologiche sul divorzio, sull’aborto, per l’edilizia popolare. Un’Italia che la domenica andava a piedi per l’austerity dovuto alla crisi energetica.
Zoff era cresciuto avendo in casa sia l’Unità sia Famiglia Cristiana. La prima volta che lo abbiamo visto a colori, fu al Mundial del 1978, il primo che i cinquantenni d’oggi possono ricordare. Troppo piccoli per Italia-Germania 4-3 del 1970, troppo ingenui per cogliere i veleni interni tra i clan della Nazionale azzurro tenebra del 1974, pronti per la prima bella Italia, per quel torneo argentino che arrivava a spazzare il bianco e nero dalla televisione e dai ricordi. Così vedemmo la maglia di Zoff diventare grigia, in certi casi finanche d’un verde scuro, gli vedemmo prendere gol improbabili dagli olandesi e dai brasiliani, prima del riscatto in Spagna nel 1982, tra il Sarrià di Barcellona e il Bernabéu di Madrid. Era stato criticato con ferocia e invece toccava proprio a lui alzare la prima Coppa del Mondo nell’Italia democratica e cristiana. Un rivoluzionario mite e silenzioso, all’alba del decennio che sarebbe stato più denso di rumore. Compie ottant’anni una vita così, senza che sia più stato possibile trovare una sua proiezione, un suo aggiornamento in un campione d’oggi. Non avrai altro Dino all’infuori di me.