E se fossimo noi a non aver capito Piatek?

Il centravanti polacco è tornato alla Fiorentina per dimostrare che il mondo è stato ingiusto con lui. E ci sta riuscendo. Oppure sta solo illudendo tutti, ancora una volta?

La voce senza squilli che si diffonde dagli altoparlanti dello stadio Maradona scandisce un nome che pensavamo non avremmo più sentito, su un campo da calcio importante. Riecheggia ricordi sommersi, vecchi abbagli, antiche illusioni. Prima che lo speaker termini il suo annuncio, Krzysztof Piatek è già che scivola sul prato mentre spara dalle dita fumanti come canne di pistole: Pum! Pum! Pum! Minuto cento-e-otto, Napoli due Fiorentina quattro. Prima presenza in viola e primo gol, per Krzysztof Piatek. La beffa delle illusioni è che non se ne vanno mai per davvero, e così quando abbiamo rivisto Piatek segnare – e poi farlo ancora, e ancora – siamo tornati ai giorni in cui ci esaltavamo per quel centravanti tutto spigoli che sembrava aver scoperto la formula chimica del gol. A riavvolgere il nastro, erano tempi davvero strani quelli, quando riempivamo i nostri sogni di speranze strampalate: ai tifosi del Milan, per esempio, sostituire Higuaín con Piatek era parso tanto logico quanto necessario, e un futuro in cui Paquetá rappresentava il perno tecnico della squadra era non solo auspicabile, ma persino plausibile. Assurdo sì, ma funzionava. Tutte le storture di quel momento rimanevano nascoste, acquattate dietro la sagoma iper-virile di un uomo così fiero di farsi chiamare Il Pistolero.

E poi Piatek ha smesso di segnare, ed è come se avesse smesso di esistere, e noi ci siamo sentiti ingannati. Gli atti del suo dramma si sono susseguiti velocemente: prima l’Illusione (I), poi il Disincanto (II) e infine il Ripudio (III): l’esilio, avvenuto in fretta e furia in Germania, a scontare la pena per averci illusi. Ora che il suo nome è di nuovo sui tabellini, il suo ritorno sta assumendo i contorni di un nuovo atto, La Vendetta (IV): quella che ci ha riservato per avergli dato, in fondo, poco tempo e poca fiducia. Perché in effetti l’avventura italiana di Piatek è stata breve e concentrata in due estremi – l’eccitazione e l’abisso – senza vie di mezzo.

Ed è ancora più sorprendente notare che, per oscurare un’annata ottima (30 gol nel 2018/19), sia bastato il flop della mezza stagione successiva: come nelle relazioni finite male, sembra che di Piatek si siano conservati solo i ricordi brutti, reinterpretati però in chiave sarcastica. È così che il polacco è entrato nell’immaginario della Serie A come metro di paragone per i fuochi di paglia (“farà la fine di Piatek”), un idealtipo di giocatore effimero che si sgretola all’improvviso. Risucchiati nel vortice corrosivo di sentimenti in cui lui stesso ci ha fatto cadere, è mancato forse l’equilibrio per farci un’idea realistica del tipo del giocatore che è, valutarne le caratteristiche e la personalità, inserirlo nei contesti. Insomma, chi è veramente Krzysztof Piatek?

Atto I – L’Illusione

Alla base del fenomeno illusorio che ha ammantato la permanenza di Piatek in Italia sta il modo in cui si è manifestato ai nostri occhi per la prima volta: un prodigio paranormale spuntato senza preavviso, e dall’impatto così travolgente che non abbiamo avuto modo di descriverlo secondo attributi tecnici, ma solo con parole di stupore – incredibile, fenomenale, sconvolgente, e così via. Non poteva essere altrimenti: Piatek aveva segnato quattro gol all’esordio ufficiale, in Coppa Italia contro il Lecce, concentrando tutte le marcature in 37 minuti. Atteso alla prova del campionato dai più scettici, segna in ogni singola partita fino al settimo turno, per un totale di nove gol. La sua aura prodigiosa non risiede che in questo, il gol. Il polacco non sembra distinguersi per altro, anche perché in fondo ha tutto ciò di cui si ha bisogno, in certi casi: un istinto magnetico e primordiale per la marcatura, estraneo a ogni canone estetico, che gli conferisce un senso di estrema potenza, anzi di ferocia. A guardarlo, il calcio si riduce a un gioco così semplice: si tira (forte!), si segna, (magari) si vince.

Piatek calcia in porta come se dovesse aprire una lattina di tonno in scatola, c’è solo un modo per farlo: secco, deciso, non esistono alternative sofisticate o soluzioni d’avanguardia, non rimanda a nessun immaginario romantico o fiabesco, ma solo alla nuda necessità di sopravvivenza, che per Piatek è ciò che rappresenta il gol, come per noi – specie se universitari o timidi ai fornelli – il tonno in scatola. Nei primi mesi al Genoa, il suo straordinario stato di grazia offusca i suoi limiti tecnici, riscontrabili in un gioco spalle alla porta a tratti rudimentale, che lo porta a liberarsi della palla in pochissimi tocchi. Tuttavia, le sue carenze nel partecipare alla manovra offensiva sono compensate da Kouamé, che si fa carico del gioco tra le linee per garantirgli la massima resa nella finalizzazione in area, dove Piatek si trasforma nel Re Mida delle palle vaganti.

Un biglietto da visita perfetto per il Milan di Gattuso, in urgente bisogno di gol. Piatek viene acquistato per 35 milioni (il Genoa lo aveva pagato 4.5) e il suo arrivo è accolto come qualcosa di estremamente necessario. Subito conferma la sua straordinaria capacità di segnare sempre e in tutti i modi: la doppietta al Napoli, all’esordio in Coppa Italia con la maglia rossonera addosso, è un’esclamazione di onnipotenza. Da lì, sono altri sette gol nelle prime cinque partite. Ma c’è anche dell’altro: il suo passaggio al Milan sembra averlo trasformato, è come se si fosse evoluto in un attaccante capace di fare anche cose complesse: il secondo gol al Napoli, per esempio, al termine di un’azione con due difensori davanti infila il portiere con tiro secco sul secondo palo. E, soprattutto, quello all’Atalanta, il più bello della sua carriera: da un cross senza pretese proveniente dalla trequarti, il polacco s’inventa un tiro al volo spalle alla porta, senza guardare. Due gesti che saremmo pure tentati di definire belli, se non fosse per la durezza di sottofondo che avvolge ogni cosa che fa. Ma alla fine è proprio quella la sua cifra, il segreto del suo successo: Piatek è un predatore, e ci piace per questo. Chiude la stagione in rossonero con undici gol, e tutti i tifosi sparano con lui.

Sembra essere trascorsa una vita, e forse è proprio così

Atto II – Il Disincanto

La crisi di Piatek inizia sin dal precampionato 2019/2020, come se fosse un oggetto ad obsolescenza programmata dalle prestazioni garantite solo per una singola stagione di Serie A. Smette improvvisamente di segnare e le sue carenze tecniche si scoprono con una crudeltà impietosa. Senza gol, il polacco emerge come un attaccante dalla limitatissima utilità: ci sono partite in cui letteralmente scompare dal campo. Il suo protendersi unicamente al gol viene rimproverato dai suoi allenatori: se Gattuso lo aveva paragonato a un bambino che ha appena imparato a parlare («Piatek sa dire solo gol gol gol»), il neoallenatore Giampaolo lo invita pubblicamente a non esserne ossessionato, come a dire che nella vita c’è anche altro. In un gioco poco votato alla verticalità, Piatek si spoglia della sua aura prodigiosa e finisce in panchina. La sua crisi viene accentuata da quella della squadra, diventandone anzi il simbolo. In poco tempo, l’immagine di infallibile potenza che aveva proiettato su se stesso gli torna indietro come un boomerang.

È così che Piatek va in cortocircuito: il ruolo di glaciale terminator che si era cucito addosso lo incastra in una grottesca crisi esistenziale, non gli permette di scoprire degli umani segni di vulnerabilità, né di suscitare empatia. È in palese difficoltà ma si ostina a non mostrarlo, o forse non sa proprio come fare: sembra uno di quei personaggi piatti dei film sparatutto americani, a cui puoi certo chiedere di detonare una bomba, ma non di dare una carezza che non sia una tremenda sberla rotante.  Davanti alla perdita dei suoi poteri, Piatek imperversa in una tronfia e artificiale fierezza, con dichiarazioni che lo mettono sotto una luce patetica. Afferma, in ordine sparso: che ha solo problemi di condizione atletica, che riprenderà a segnare a raffica, che si rivede in Harry Kane (?), che il suo obiettivo è di essere rivenduto al doppio. Allo stesso modo, il padre inizia a minacciare la sua partenza, perché Krzysztof non può certo permettersi di fare la riserva.

È coì che la cocciuta ostinazione di Piatek a prendersi sul serio sfocia nel più malinconico degli incubi: diventare oggetto di scherno, di ironia, qualcosa per cui il polacco non ha antidoti, non avendola mai contemplata. Mentre il mondo attorno a lui si sgretola, Piatek continua a gridarci che è quello di sempre, che tornerà, ma ormai non gli crede più nessuno. Il Milan a dicembre compra Ibrahimovic e lo spedisce senza complimenti in Germania: al Bayern? Al Borussia? No, all’Hertha Berlino. Sic transit gloria mundi.

Atto III – Il Ripudio

Ai nostri occhi, Piatek arriva in Germania spogliato di ogni credibilità, e non ci stupiamo di vederlo fallire di nuovo: Klinsmann, che l’aveva fortemente voluto, viene esonerato dieci giorni dopo il suo arrivo; l’Hertha sbanda nei bassifondi della Bundesliga e lui finisce a fare la riserva anche lì. La scena che riassume il suo periodo in Germania la troviamo in un Herta Berlino-Bayern Leverkusen del giugno 2020: al 54esimo, il polacco supera il portiere e mette a sedere un difensore, ma proprio sulla linea di porta arriva Lukebakio – suo compagno di squadra – che scarica in rete al posto suo: la più crudele delle pene per contrappasso. In totale, saranno 13 gol in 56 presenze.

Un momento un po’ comico, ma anche tragico

Atto IV – La Vendetta

Piatek se ne era andato via dall’Italia con un cartellino da 27 milioni ed è tornato con uno da 15, indicatore quantitativo della sua melanconica decadenza. Era un po’ di tempo che il suo nome ronzava dall’apertura mercato invernale, e a un certo punto sembrava addirittura vicino un suo clamoroso ritorno al Genoa. Alla fine l’ha preso la Fiorentina, e i tifosi si sono sentiti in dovere di rassicurare sé stessi che veniva a fare la riserva, ricacciando l’idea che esistesse una squadra disposta ad affidare le chiavi dell’attacco a Piatek. Dopotutto, Vlahovic era ancora in viola e, concretizzata la sua cessione, a sostituirlo è arrivato Cabral. Designato per un ruolo di secondo piano, Piatek ha fiutato un’opportunità irripetibile nella partenza del serbo e si è avventato sul suo posto lasciato libero con la spietata rapacità dei vecchi tempi: sei gol nelle prime nove partite, l’ultimo proprio ieri contro il Verona. Alla Fiorentina, il polacco ha trovato forse per la prima volta una squadra organizzata secondo un’identità tattica ben definita, beneficiando degli spunti offerti dai due esterni del tridente d’attacco. Per razionalizzare Piatek una volta per tutte, è questo uno dei primi aspetti da considerare: il polacco quasi mai ha trovato contesti favorevoli, avendo incontrato undici (!) allenatori diversi nelle ultime quattro stagioni.

Mentre prepara il suo reintegro in società, Piatek sembra dirci che non siamo noi a essere stati ingannati, ma lui a non essere stato capito. Perché pensavamo di essere di fronte a un attaccante nuovo, un prototipo di centravanti che sembrava provenire dal futuro, con margini sconfinati, capace di calcolare algoritmicamente gli spazi e i tempi di inserimento, e non sbagliare mai. E invece, di fronte alla nostra ossessione per il moderno, Piatek rappresenta qualcosa di antichissimo: il nove vecchia maniera dal pragmatismo esasperato, baluardo della efficace semplicità delle cose che non cambiano mai. Un presidio di conservatorismo calcistico che, non a caso, funziona sempre molto bene in Italia. Piatek non sarà mai un attaccante moderno né tanto meno un attaccante completo: sa bene, però, che non c’è nulla di più spietatamente reale del gol, ed è più che sufficiente per conquistarci di nuovo. È per questo che è tornato: per convincerci che, nel grande fraintendimento in cui è caduta la sua vita, a sbagliarsi siamo stati noi. E continuerà a spararci addosso.