Gli atleti sono come noi e i podcast sono qui a ricordarcelo

Sempre più sportivi creano contenuti audio in cui parlano di tutto: cazzeggio, film o il loro lavoro. Sono finestre nuove nel rapporto con il pubblico, e l’effetto è sorprendente.

Abbiamo scoperto che Robert Pattinson è un eccellente Batman, un po’ a sorpresa. Forse non ce lo aspettavamo così a suo agio nei panni del Cavaliere Oscuro, o forse avevamo pensato che dopo Christian Bale sarebbe potuta andare solo peggio. O forse, più semplicemente, Ben Affleck aveva distrutto ogni aspettativa sui film di Batman. Dopo aver visto il Pattinson-Batman, verrebbe da chiedersi se una montagna umana come The Rock possa maneggiare con destrezza tutte le armi dell’uomo pipistrello, o magari se Ryan Gosling sia quello giusto almeno nella parte di Bruce Wayne imprenditore dell’alta società di Gotham, con tanto di scene da playboy che nell’ultimo film mancano del tutto. E se invece fosse Daniel Day-Lewis a tornare in azione per un ultimo giro di acrobazie col favore delle tenebre? No, questa è decisamente improbabile.

Nell’ultima puntata del suo podcast, l’ex guardia tiratrice Nba JJ Redick si è inventato un mini-gioco con Tommy Halter, la sua spalla, e l’ala dei Phoenix Suns Mikal Bridges – ospite della puntata – alla ricerca del prossimo attore che vorrebbero vedere nei panni di Batman. I nomi che hanno fatto sono tutti decisamente poco adatti. L’hanno buttata in vacca per qualche minuto. Prima, però, c’era stata una lunga chiacchierata sulla stagione incredibile dei Suns, sui playoff che arriveranno in primavera, con qualche aneddoto simpatico sui gusti musicali più assurdi in giro per la Nba.

Il Redick podcaster è molto simile al Redick giocatore: vuole sembrare a tutti i costi il compagno di squadra ideale, non ha mai un tono altezzoso e preferisce fingere di essere d’accordo piuttosto che forzare una discussione in modo averla vinta a tutti i costi. Una puntata di “The Old Man & The Three” mette insieme sempre tante cose, ogni volta con un ospite diverso, e non si parla solo di sport – anzi, le conversazioni più interessanti sono quelle con Stacey Abrams e Matthew McConaughey. E poi c’è tanto cazzeggio: nell’intro di una puntata con Sue Bird e Megan Rapinoe, i due co-host hanno stilato un power ranking dei cereali più buoni da inzuppare nel latte.

Redick ha iniziato a fare podcast molto prima di smettere di giocare, e per anni ha raccontato storie, aneddoti e retroscena sulla Nba. Fanno lo stesso tanti suoi ex colleghi come Kevin Durant, CJ McCollum, Duncan Robinson. Basta fare una rapida ricerca su Spotify o Apple Music o qualsiasi altra piattaforma per trovare una serie infinita di podcast condotti da atleti che si divertono al microfono tra un allenamento e una partita. Sono i protagonisti del mondo dello sport che sconfinano il perimetro del campo. E lo fanno per parlare direttamente al loro pubblico. Nell’era del player empowerment e della disintermediazione della comunicazione, la relazione tra gli atleti e i loro follower non poteva rimanere in uno schema novecentesco: «Per decenni gli sportivi con una storia da raccontare, o che semplicemente sentivano il bisogno di fare un commento sull’attualità, scrivevano un libro rivelatore, concedevano un’intervista a un giornalista di fiducia, magari partecipavano a un programma radiofonico, mentre oggi hanno la possibilità di condividere le loro opinioni in altro modo, anche in tempo reale, e con un contenuto non filtrato», ha scritto il New Yorker in un articolo della scorsa primavera.

Qualcuno si fa bastare una PlayStation, un paio di auricolari e un canale Twitch per trasmettere in live streaming – come fanno Thibaut Courtois, Sergio Agüero, Douglas Costa. Altri si accontentano dei 280 caratteri di Twitter. Altri ancora devono aver pensato che sia meglio dilatare i tempi, prendersela con calma ma prendersi anche tutto lo spazio necessario per esprimersi al meglio. E allora ecco che i podcast diventano uno strumento ideale per creare un filo diretto tra gli sportivi e i loro follower. Negli ultimi anni ne sono nati moltissimi, con format di ogni tipo. Il denominatore comune è voler stare lontani dalla monotonia delle risposte date conferenze stampa, quei momenti sempre più fiacchi in cui giocatori e allenatori costretti a parlare del rinnovo del contratto o della decisione dell’arbitro.

C’è una fetta di mercato anche per gli ex atleti in pensione. Non c’è bisogno di fare appello alla nostalgia, un ex giocatore può avere un bagaglio infinito di storie, memorie e retroscena sconosciuti. La settimana scorsa l’ex Mvp della Nba Charles Barkley, oggi commentatore per Tnt, ha confessato al podcast di Draymond Green che poco prima di morire Kobe Bryant aveva firmato per l’emittente di Ted Turner: «Non dovrei dirvelo, ma in realtà avevamo assunto Kobe Bryant. Probabilmente mi metterò nei guai per avervelo detto». Il “Draymond Green Show” parla quasi sempre di basket, poco di altri temi: non è una scelta politica, lo show è volutamente disegnato a immagine e somiglianza di un cestista che respira pallacanestro anche nel sonno.

«Non sorprende che gli atleti di quest’epoca abbiano preso il podcasting sul serio e producano alcuni dei contenuti più ricchi e vivaci del mercato», scriveva il New Yorker introducendo alcuni esempi di successo come “Hotboxin” di Mike Tyson, il più serioso “Nfl Legends” di Aeneas Williams, fino allo stile scanzonato e mattacchione di “All The Smoke” degli ex Nba Matt Barnes e Stephen Jackson, due che non stavano buoni nemmeno durante i 48 minuti sul parquet. In una puntata recente, Barnes ha ripescato un momento che passa spesso nei reel di Instagram e nei feed di TikTok: anno 2010, Orlando Magic contro Los Angeles Lakers, Barnes fa finta di tirare una pallonata in faccia a Kobe Bryant, va davvero vicino a colpirlo dritto sul naso. Ma il Mamba è un animale a sangue freddo e non si muove di un millimetro. «Le sue ciglia hanno toccato la palla e lui non ha avuto nessuna reazione».

Proprio vero: nessuna reazione

I podcast sono un’altra piattaforma che ci ricorda quanto il mondo dello sport, oggi, possa andare oltre quell’inutile «zitto e pensa a giocare». E non perché gli atleti debbano necessariamente esprimere una posizione politica o scomoda. I tifosi vogliono sapere se i loro idoli sono simili a loro, o completamente diversi fuori dal campo. Ce lo ricordano anche alcuni grandi successi recenti di Netflix e Amazon. Al momento, gli atleti podcaster sono soprattutto americani. In Europa non c’è ancora granché, in Italia quasi nulla. Tra le due sponde dell’Atlantico c’è una distanza enorme in termini di investimenti economici, competenze nella produzione e nella scrittura dei programmi, ma qualcosa sta già cambiando: importiamo cultura dall’America da almeno 60 anni, è molto probabile che il trend prima o poi arrivi anche qui. Peter Crouch, per esempio, ha creato un podcast di successo parlando soprattutto di calcio ma non sempre di calcio giocato. E ha vinto anche il British Podcast Awards nel 2019.

Il format funziona come già funzionano altri prodotti editoriali che sono il simbolo della disintermediazione di quest’epoca. L’esempio migliore è The Players’ Tribune, il portale lanciato da Derek Jeter nel 2014, tre giorni dopo il suo ritiro dalla Major League Baseball: non è un raccoglitore di interviste, ma un luogo dove gli atleti possono dire più o meno quello che vogliono e come vogliono, parlando a chi vogliono. Buffon ha scritto una lettera al se stesso di 17 anni, Adriano “l’imperatore” ha raccontato i momenti più difficili dopo la morte del padre, la calciatrice Pallone d’oro Alexia Putellas ha tirato fuori un po’ di racconti della sua vita e della sua carriera in un pezzo significativo e potente intitolato “Football has no gender”.

A inizio marzo The Athletic ha fatto un esperimento simile chiedendo a un ex difensore del Manchester City, Nedum Onuoha, di intervistare Mario Balotelli, con cui ha condiviso appena sei mesi in spogliatoio nella stagione 2011/12. Si sono messi al microfono e hanno chiacchierato, riprendendo un po’ di frammenti della carriera più what if del mondo. Forse non è abbastanza per poter dire che è un’intervista speciale, di quelle che Balo non avrebbe fatto con altri interlocutori. Forse Onuoha deve perfezionare la sua tecnica giornalistica: pazienza, con il tempo può migliorare anche in questo. Tra qualche anno, magari, Nicolò Barella e Giacomo Raspadori ci diranno chi deve essere il prossimo Spiderman dopo Tom Holland.