Grandezza, ricchezza e misteri di Roman Abramovich

Storia di un uomo oscuro e indecifrabile, che ha cambiato il calcio per sempre.

Ogni nuova era della storia del calcio ha avuto inizio con una ridefinizione del concetto di ricchezza. Della sua profondità, della sua vastità, soprattutto della sua disponibilità. È la ragione, questa, per la quale Silvio Berlusconi e Massimo Moratti sono diventati parte dell’immaginario calcistico collettivo: da proprietari a simboli, da presidenti a icone, di opulenza in opulenza, di esagerazione in esagerazione. Nel giugno di diciannove anni fa, anche Roman Abramovich diede inizio a una nuova era della storia del calcio ridefinendo il concetto di ricchezza. Nel giugno di diciannove anni fa, nel mondo del pallone arrivò il proprietario di un patrimonio talmente immenso che per definire lui e quelli come lui era stato necessario prendere in prestito una parola da un dizionario che non era quello del calcio né quello dell’economia: oligarca è una parola della lingua del potere, indica il detentore di una forza enorme distribuita tra pochi fortunati, crudeli, forti o furbi abbastanza da meritarla, da emergere vivi da sotto le macerie dell’Unione Sovietica, da diventare i tiranni che sopravvivono alla tirannide stessa.

Per molti, Abramovich fu la prima volta che un concetto (l’oligarca russo) assumeva fattezze umane. E per molti fu strano: quell’uomo così piccolo e magro non somigliava affatto agli oligarchi dell’immaginazione, personaggi romanzeschi composti in parti uguali di capitalismo selvaggio e crimine organizzato. Come spesso capita, il modo migliore per spiegare l’opinione pubblica calcistica in un dato momento nel tempo e a una certa coordinata nello spazio è un coro da stadio: nei primi mesi di presidenza Abramovich, mentre i tifosi avversari li schernivano parlando di “Chelski”, gli ultras blues mettevano il loro presidente in una canzone: «He’s got Verón in his pocket/We got Johnson from West Ham/If you want the best/Then don’t ask questions/Cos Roman, he’s our man/Where it all comes from is a mystery/Is it guns? Is it drugs?/Is it oil from the sea?/So come on all you Chelsea/And your celery/We are the famous CFC».

Pare che una delle prime cose che Abramovich fece dopo aver comprato il Chelsea fu volare a Milano (con jet privato, si capisce) per incontrare Massimo Moratti. Voleva imparare il mestiere del presidente e voleva pure convincere Moratti a vendergli Bobo Vieri. Ovviamente Moratti accettò di incontrare l’uomo di cui in quel momento parlavano tutti e fu assai felice di impartirgli la prima, fondamentale lezione che un miliardario deve imparare se vuole sopravvivere nel calcio: i soldi non bastano. Non bastano mai e non bastano per tutto. Vieri al Chelsea non ci andò e rimase all’Inter, infatti. In compenso, Moratti regalò ad Abramovich tre rasoi per la barba, perché pare trovasse il look del giovane collega tutt’altro che presidenziale. Il più costoso di questi rasoi costava circa duecento euro. Questa fu la seconda, fondamentale lezione che Moratti impartì ad Abramovich: ancor più che negli altri mondi, in quello del calcio le apparenze sono sostanza.

In effetti per Abramovich le apparenze erano sempre state un problema: la bassa statura, la barba incolta, il look dimesso. Più che le apparenze, il problema si poneva con l’atto stesso dell’apparire: fino al 1999 non esisteva una sua fotografia disponibile al pubblico. Un giornale russo fu costretto a promettere una ricompensa di un milione di rubli per chiunque fosse riuscito a scattare una foto all’uomo che si diceva avesse suggerito a Yeltsin di scegliere tale Vladimir Putin come successore, che avesse personalmente intervistato (vale a dire vagliato) tutti i futuri membri del suo primo governo, che comandasse il Paese assieme al socio e sodale Berezovsky. Il meglio che il vincitore del premio riuscì a ottenere fu un’immagine sfocata, all’epoca rappresentazione perfetta del personaggio ritratto.

In Russia nessuno immaginava che Abramovich avrebbe poi deciso di diventare uno degli uomini più esposti, “più pubblici” del suo Paese e del mondo intero. Quando la notizia dell’acquisizione del Chelsea arrivò in Russia, Aleksandr Voloshin, in quei giorni braccio destro di Putin, chiamò Alexei Venediktov, popolarissimo speaker radiofonico moscovita, per chiedergli come, secondo lui, i russi avrebbero preso la notizia. Venediktov non aveva bisogno di immaginare una risposta: quando si seppe che una squadra di calcio inglese era stata comprata da un miliardario russo, tutti gli ascoltatori della sua trasmissione chiamavano per dire la stessa cosa: «Era come se Roman avesse rubato soldi al popolo per comprarsi un giocattolo», dirà poi Venediktov, ricordando quei giorni. Secondo alcuni (tanti), Abramovich avrebbe comprato il Chelsea perché voleva spendere i suoi soldi in una cosa che lo divertisse: all’inizio voleva il Manchester United, poi gli capitò di volare sopra Stanford Bridge con l’elicottero e preferì il Chelsea (la squadra, il quartiere, la città). Secondo altri (pochi), i Blues sono stati per lui un’assicurazione sulla vita: se è sopravvissuto a Berezovsky, a Vladimir Gusinsky, a Mikhail Khodorkovsky non è solo perché non ha mai nemmeno immaginato di sfidare Putin ma anche perché a un certo punto in tutto il mondo si trovavano sue fotografie. Allo stadio.

Chris Hutchins, uno dei biografi di Putin, ha descritto il rapporto tra il presidente russo e Abramovich come «quello tra un padre e un figlio prediletto» (Vladimir Rodionov/AFP via Getty Images)

Certo, Moratti aveva ragione: nel calcio i soldi non bastano mai e non bastano per tutto. Ma Abramovich è stato probabilmente il primo a mettere in dubbio l’assolutezza di questa verità. Nella prima settimana da proprietario e presidente del Chelsea spese più di cento milioni di euro, quasi quanto tutti gli altri club della Premier League messi assieme. Wenger, che dei soldi delle altre squadre si è sempre preoccupato molto, definì il Chelsea un club «finanziariamente dopato» che poteva contare su risorse «illimitate». Chissà se l’ex allenatore dell’Arsenal aveva previsto quello che sarebbe successo e sperava di evitare quel che Abramovich avrebbe portato nel presente e nel futuro del calcio.

La sua presidenza si interrompe dopo aver speso quasi tre miliardi di euro solo nel calciomercato. La sua vita da presidente finisce con la certezza storico-economica che Neymar non sarebbe mai passato dal Barcellona al Psg per 222 milioni di euro se nel 2005 Abramovich non avesse deciso che valeva la pena spendere 21 milioni di sterline per assicurarsi le prestazioni sportive di Shaun Wright-Phillips, l’inizio di una curva (una bolla?) che quest’estate porterà Mbappe al Real Madrid per chissà che cifra. Soprattutto, la sua esperienza nel calcio finisce con la consapevolezza (sua e nostra) che Glazer, Kroenke, Mansur bin Zayd Al Nahyan, Nasser Al-Khelaifi, il fondo Pif, tutti i nuovi padroni del gioco non sarebbero stati possibili (né interessati) se prima non ci fosse stato lui a dimostrare che si può prendere quello che per tutta la sua storia era stato definito un “cup team” e trasformarlo immediatamente in un “contender” per tutto ciò che nel calcio è contendibile.

Immediatamente, per Abramovich, è sempre stata una parola importante: per lui è un sinonimo di ottimismo. Quando Trevor Birch, uberdirigente del Chelsea e uomo fondamentale nella trattativa che porterà all’acquisizione del club da parte di Abramovich, gli disse che per fare dei Blues il prossimo Manchester United ci sarebbero voluti quarant’anni, Abramovich decise di licenziarlo. Al suo posto prese Peter Kenyon, che fino a quel momento lavorava, appunto, per il Manchester United. Quando Claudio Ranieri, in un’intervista postpartita, insinuò che bisognava essere soddisfatti di una stagione che fino a quel momento diceva secondo posto in campionato e qualificazione agli ottavi di finale di Champions League, Abramovich cominciò a pensare all’esonero. Provò a prendere Eriksson, che all’epoca era il commissario tecnico della Nazionale inglese. Poi decise per Mourinho, che la Champions League l’avrebbe vinta di lì a poco con il Porto.

Roman Abramovich festeggia il primo titolo nazionale vinto dal suo Chelsea, nel 2005; in seguito ne vincerà altri tre, nel 2006, 2010, 2015 e 2017, e poi conquisterà altri 16 trofei, tra cui le Champions League del 2012 e del 2021 (Odd Andersen/AFP via Getty Images)

Nelle scelte di Abramovich, che nel Chelsea pare sia stato più presente e partecipe che in tutte le altre proprietà presenti nel suo portafoglio, l’immediatezza del risultato era la priorità. Ci metterà dieci anni a vincere la prima Champions, altri dieci per la seconda: chi ha il privilegio di chiacchierarci in privato dice che consideri tutto questo troppo poco e troppo tardi. Nei 19 anni di sua presidenza il Chelsea è riuscito a mettere in bacheca tutti i trofei disponibili nel calcio contemporaneo. Nessuna squadra inglese ha vinto quanto il Chelsea dal 2003 a oggi. Gli resta solo un rimpianto, dopo tutti questi anni spesi (la parola giusta, per lui) nel pallone: che con Andriy Shevchenko sia andata come è andata. Shevchenko è stata l’unico capriccio che Abramovich abbia mai avuto, la causa del litigio che porterà alla prima cacciata di Mourinho: secondo il presidente, l’allenatore non si impegnava abbastanza per favorire l’inserimento di Sheva nell’attacco del Chelsea. Ci sarebbe retorica conciliante e giustizia poetica da fare su un russo che si spende così tanto per un ucraino. Evitiamo.

Chi conosce nel dettaglio la storia di Roman Abramovich non lo definisce né oligarca né imprenditore. Chi conosce personalmente Roman Abramovich si dice convinto che il suo più grande pregio sia la facilità con cui accetta di delegare: nelle sue aziende lascia fare ai manager spesso e volentieri. Chi conosce davvero Roman Abramovich lo definisce un politico, uno specialista dei rapporti umani, benedetto da un intuito e un tempismo fuori dal comune. Secondo quelli che si possono definire suoi “intimi”, tutta la vita e tutto il successo di Abramovich si riassumono nella capacità di prendere la decisione giusta al momento giusto: nel suo caso, quella di non intralciare mai Putin, in nessuna occasione, per nessun motivo. Pare Abramovich non abbia mai dimenticato una lezione imparata da giovanissimo: un uomo può essere ricchissimo e possedere tantissimo e sentirsi potentissimo, ma sarà sempre meno potente dell’uomo che possiede la prigione. Tutta la sua vita è stata un tentativo di conservare l’amicizia con l’uomo che possiede la prigione. Probabilmente non aveva immaginato che alla fine quell’amicizia gli sarebbe costata così tanto, perché l’uomo che possiede la prigione è anche quello che possiede la bomba.