Noi siamo napoletani

Storia della discriminazione territoriale più odiosa e diffusa. Iniziò negli anni Settanta, dura ancora oggi con effetti grotteschi.

In principio la colpa fu del vibrione. Estate 1973. Nei giorni in cui all’ospedale Cotugno di Napoli venivano ricoverate circa novecento persone, tra casi di colera reali e una certa dose di psicosi, le autorità sanitarie di Genova bloccarono il viaggio della squadra di calcio per una partita di Coppa Italia. Disposero che il Napoli non arrivasse, per il timore di un contagio. Fu disposta l’inversione del campo e per paradosso al San Paolo si giocò lo stesso, ma da quel momento in poi ogni trasferta venne accompagnata dallo stesso coro negli stadi: «Co-le-ra, co-le-ra». Forse non se ne sarebbe saputo niente, se allo stesso tempo il calcio non fosse diventato un fenomeno di massa e di costume con la vittoria dell’Italia sulla Germania nella semifinale ai Mondiali di Mexico ‘70. Stava nascendo il tifo organizzato nelle curve. Si cominciava a girare l’Italia dietro la propria squadra. Con i torpedoni, le carovane, i treni speciali. Così, i napoletani scoprirono che nel resto del Paese s’era diffusa questa speciale forma d’accoglienza. Nel nuovo territorio popolare del pallone, era una rivisitazione in altri termini dell’antica discriminazione subita dagli emigranti d’una volta. Quelli che avevano lasciato casa per cercarsi un lavoro al Nord e si erano imbattuti nei cartelli: «Qui non si affitta a meridionali».

La storia dell’avversione per Napoli negli stadi è vicina a compiere mezzo secolo, senza aver trovato né soluzione né cura. Sono mutate le parole, gli strumenti, i canali di diffusione. Sono soprattutto aumentati i posti nei quali si incontra. Occupare da napoletano una gradinata in un luogo diverso dal San Paolo, significa doversi disporre all’ascolto di qualche oltraggio. Farla franca è un’eccezione. Se ci porti un bambino, devi esserti preparato in anticipo al momento in cui chiederà: papà, che dicono? Una domanda alla quale si riuscirà a far fronte con una certa disinvoltura, prima di vivere l’imbarazzo del secondo punto interrogativo: e perché dicono così? Ora, se vuoi evitare di trasformare un momento piacevole in una forma di iniziazione al veleno, esisteranno due vie d’uscita. La prima è rinunciare allo stadio, la seconda è usare lo stesso argomento di chi insulta: ma niente – gli dici – scherzano. Due miserie in un colpo solo.

C’è sempre tempo per diventare grandi, ma quel tempo arriva. Implacabile. Così, dentro uno stadio di una città che non è quella in cui sei nato, ma può essere quella in cui vivi, misurerai il risentimento lungo una scala di valori, un intervallo che va dall’invito a usare più spesso il sapone fino all’auspicio di saperti strinato come un abitante di Pompei nel 79 dopo Cristo. Il coro più neutrale di tutti certifica: «Noi non siamo napoletani». In fondo un’ovvietà. Che è come dire: un oggettivo disprezzo. In attesa di qualche filosofo appassionato di ermeneutica, passano per sfottò. Uno scherzo. Ma lo sfottò è una concessione, un patto silenzioso, una rinuncia alla permalosità verso qualcuno in cambio di una confidenza. Lo sfottò per definizione si manifesta tra amici. Se non abbiamo mai cenato insieme, vorrei avere la libertà di sentirmi offeso. Il fatto è che crescendo, si attraversano schiere e schiere di questi spiritosoni anche al di fuori degli stadi («Un napoletano, attenti ai portafogli»), perfino in ambiti professionali, si impara a conviverci con pazienza, qualche volta fingendo di non aver sentito, quasi sempre rinunciando alla tentazione di enunciare una sfilza di primati, per non correre il rischio di un’assimilazione con quanti adoperano l’armamentario retrò dei neo-borbonici, la propensione cioè a credere che in un momento poco chiaro della storia, la città abbia vissuto una presunta età dell’oro, durante la quale il resto del mondo non poteva che essere incantato.

Nel suo imperdibile libro Scuorno (Mondadori, 2008), Francesco Durante ha scritto che «dall’Unità in poi, insistente e pervasivo è stato il messaggio sul ritardo e l’inciviltà dei meridionali, da sfociare alla fine in una specie di pensiero unico – e condiviso, se si considera la parte fondamentale che gli stessi intellettuali del sud ebbero nella sua propagazione». Sociologi e antropologi come Alfredo Niceforo giunsero a teorizzare una inferiorità razziale dei meridionali. «Quando è la scienza a sancire la tua inadeguatezza», dice Durante, «poco altro ti rimane da fare». Così succede che il meridionalismo sia accetto alle tavole rotonde a patto che sia critico, e quando per pose o comportamenti ti distacchi dall’idea che l’altro ha della tua parte, al massimo possono dirti “un napoletano atipico”.

La discriminazione territoriale è presente nel codice di giustizia sportiva dal 1989. Successe che all’indomani di una marcia antirazzista con centomila partecipanti a Roma, lo stadio Flaminio rilanciò un coro ascoltato tempo prima al Bentegodi di Verona. Proprio quello ormai celebre sul Vesuvio. Se non uno scandalo, fu un grosso trauma. «Benvenuti in Italia», dicevano gli striscioni a Bergamo. La Federcalcio stabilì che si trattava di circostanze insopportabili. Non c’era più il colera a Napoli, ma c’era Maradona. Un tipo che aveva reso vincente e orgoglioso questo strano popolo, per i motivi di sopra affetto da schizofrenici sbalzi di umore, tra un complesso di inferiorità e il suo contrario. «Siete campioni del Nord Africa», scrissero in Italia il giorno della festa per il primo scudetto. La sera in tv rispose Massimo Troisi. «Meglio essere campioni del Nord Africa che scrivere striscioni da Sudafrica». Pretoria viveva ancora in regime di apartheid.

Napoli è rimasta città bisognosa sia d’affetto sia di verità. Due beni che stanno insieme a fatica, ogni tanto anzi si scontrano. Se il New York Times manda un inviato per descriverne la bellezza, il bisogno d’affetto resterà appagato, ma il bisogno di verità spingerà l’altra porzione dell’anima a chiedere che non siano taciute le ombre, gli sconci delle periferie, il ventre putrido. Così come se una settimana dopo il Guardian pubblicherà un’inchiesta sui mali di Napoli, insorgerà la parte che chiede giustizia nel nome della incommensurabile creatività. C’è il campionato mondiale dei pizzaioli? Quando avrà vinto un napoletano, si solleverà la sezione urbana stufa di essere raccontata con il cliché del mandolino. Ma se a imporsi sarà stato un giapponese, si rivolterà il lembo che ritiene impossibile mangiare una Margherita decente oltre il confine di Bagnoli Dazio, per non parlare del caffè. Tutti elementi che convergono su una verità: Napoli non è che percezione. Il Napoli è uno stato d’animo, ha ripetuto per anni l’ex presidente Corrado Ferlaino.

Alla cartolina pastello di Anema e Core si è sovrapposta una seconda apparenza, la visione dark nata a cavallo tra la faida camorristica di Secondigliano e la crisi dei rifiuti. Ognuno si farà la propria idea sul fatto che la discriminazione territoriale negli stadi abbia ripreso fiato nella stessa finestra di tempo, quando il racconto egemone su Napoli ha messo l’accento sulla sua impresentabilità. Eppure, la città è rimasta quella di sempre, plurale, dove accanto ai drammi e ai suoi aspetti intollerabili, ogni giorno centinaia di migliaia di persone si alzano, vanno al lavoro, vivono come in qualunque altro posto d’Italia. Parlano finanche una lingua straniera. Sono soltanto espulse dal circuito della rappresentazione mediatica.

Un momento di svolta possibile è l’agosto del 2013, quando il consiglio federale cancella esimenti e attenuanti per i cori negli stadi. Le sanzioni per l’odio verso Napoli diventano le stesse per i cori razzisti. Cade una curva dietro l’altra, ma sono le curve delle città che hanno una voce. La prima: quella del Milan. Il presidente federale Abete approva: «Siamo sulla strada giusta». Gli ultras protestano con bombe carta, cori sul Vesuvio e uno striscione: «La chiusura del settore non cancella l’odore: Napoli merda». Galliani protesta: «Capisco il razzismo, ma la norma sulla discriminazione territoriale va abolita». Il presidente della Lega, Beretta, minimizza: sono minoranze. Platini, ancora presidente Uefa, da Ginevra è duro: «L’Uefa non accetta compromessi contro qualsiasi forma di discriminazione». Lotito gli risponde: «Platini non è il vangelo». La vulgata è che si tratti di goliardia. Diamine, non si è sempre fatto così con i napoletani?

La stessa curva del Napoli inizia a cantarsi da sola i cori sul Vesuvio. Sembra ironia, non lo è. È un patto che si sta saldando tra gli ultrà. Gianluigi Buffon, il capitano della Nazionale, dirà che «il confine fra campanilismo, sfottò, discriminazione e offesa è molto labile». Abete vorrebbe mantenere il punto: «Cerchiamo di non diventare ridicoli nel far passare offese triviali per ironia». Chiudono la Nord e la Sud a Roma, la Primavera a Torino, il secondo anello della curva a San Siro, la Sud della Juventus. A Bologna hanno una bella idea per superare le tensioni: prima della partita mettono la canzone “Caruso” di Lucio Dalla. Mezzo stadio fischia e canta contro Napoli. Il 3 maggio la finale di Coppa Italia Napoli-Fiorentina viene giudicata a rischio. È la partita che porterà all’omicidio di Ciro Esposito. Con le dimissioni di Abete per il disastroso Mondiale in Brasile, sarà il nuovo presidente federale Carlo Tavecchio ad annacquare la norma. Pochi mesi dopo verrà squalificato dalla Uefa per razzismo, per la famosa frase su Optì Pobà e i mangia-banane.

Prima che la pandemia portasse per due anni una pace simulata e il silenzio intorno alle partite, il fenomeno aveva fatto in tempo a entrare nel territorio del nonsense. Successe quando il coro “lavali col fuoco” si alzò dal settore dello Juventus Club di Cercola, un comune di 17mila abitanti alle porte del Parco nazionale del Vesuvio. Certe voci la domenica hanno ripreso a tifare affinché il vulcano si surriscaldi. Quando il Napoli perde, negli stadi del nord spuntano pure ladri di cori che usano Oi Vita Mia per la celebrazione di una sconfitta, per la rivendicazione di una propria identità differente. Se non fosse che, cantando, mostrano anche loro un prodigioso accento meridionale.

Da Undici n° 43
Foto di Jim C. Nedd