Potresti mai tifare la squadra di Roman Abramovich?

O quella del fondo sovrano dell'Arabia Saudita o del Qatar? Mentre il calcio diventa strumento di potere e propaganda, i tifosi rischiano di essere complici involontari.

È ancora al suo posto, nella Matthew Harding Stand di Stamford Bridge. Uno striscione che da queste parti è issato da tempo immemore: c’è scritto sopra “The Roman Empire”, i colori della bandiera russa, il volto di Roman Abramovich. La vita del Chelsea va avanti, nonostante tutto. Pure quella dei tifosi, esattamente come prima, perlomeno quella di chi aveva in tasca un biglietto per lo stadio prima che le sanzioni del governo inglese colpissero il proprietario dei Blues. La liturgia del campionato non può fermarsi. Il gol di Kai Havertz nel finale piega il Newcastle. Si va a casa festanti, si aspetta la gara di Champions contro il Lille. Anche se i conti del club sono bloccati, le disponibilità economiche limitate. Per disposizione del governo, il Chelsea non può spendere oltre 20mila sterline come costi di trasferta. «Se necessario, li porto in pulmino io», ha detto Tuchel.

Il Chelsea continua a giocare e i suoi tifosi rimangono leali. Alla squadra e al suo proprietario. Roman Abramovich, l’uomo che per diciannove anni è stato a capo del club londinese costruendo una legacy. Sportiva, perché il Chelsea nel corso dell’impero russo (doverosa citazione) ha vinto due Champions League, un’Europa League, oltre ad aver abbondantemente rimpinguato il palmarès nazionale. Economica, perché ha mostrato al mondo che un uomo smisuratamente ricco può in totale autonomia ribaltare la storia non solo di un club, ma pure degli interi equilibri calcistici continentali. Mentre Abramovich si costringeva a mettere in vendita il proprio club, non nascondendo nel comunicato ufficiale di disimpegno un certo dispiacere, i tifosi del Chelsea, in trasferta a Luton, scandivano ad alta voce: “Roman Abramovich! Roman Abramovich!”.

Un tempo si inneggiava ai propri club, qualche volta a calciatori particolarmente rappresentativi, oggi l’onore tocca ai proprietari. La battaglia vocale tra i tifosi di Chelsea e Newcastle si è innestata su questo tema. I londinesi con la loro fedeltà incrollabile nei confronti del padre-padrone Abramovich. Gli altri li prendevano in giro: «Non avete un soldo», «Siamo più ricchi di voi». Avere una proprietà scandalosamente facoltosa diventa occasione di vanto ben più che sbandierare una recente vittoria o l’arrivo di un grande giocatore. Soprattutto, i cori dall’una e dall’altra parte raccontano una realtà: quando si parla di calcio, per la grande maggioranza del tifo non c’è conflitto o tema umanitario che regga.

Lo striscione “The Roman Empire” esposto a Stamford Bridge. Abramovich è proprietario del Chelsea dal 2003 (Photo by JUSTIN TALLIS/AFP via Getty Images)

La società civile inglese e non solo continuava a domandarsi della legittimità dell’acquisto del Newcastle da parte del fondo sovrano dell’Arabia Saudita, ma intanto nella città del Tyne i tifosi esultavano sbronzi per un avvenimento che avrebbe cambiato per sempre la storia del loro club. Ma calcio e potere sono sul serio avviluppati in un abbraccio ambiguo. Eddie Howe, allenatore dei Magpies, è stato incalzato dai media proprio dopo la gara contro il Chelsea, invitato a dire la sua sulla condanna a morte di 81 persone avvenuta in Arabia Saudita in un solo giorno. «Io mi limito a parlare di calcio», ha detto Howe. Certi discorsi rimangono tabù. La guerra scatenata da Putin, anche a Stamford Bridge, è rimasta elemento secondario. Una delle poche tracce, ancora una volta, l’hanno esibita i tifosi, quelli del Newcastle, che hanno sventolato una bandiera ucraina. Verrebbe da pensare: più per oltraggio agli avversari, che per solidarietà.

Per diciannove anni Roman Abramovich, uno degli oligarchi più vicini a Vladimir Putin e più determinanti nella sua ascesa politica, è stato a capo di uno dei più importanti club di calcio al mondo. Sembrava non importare, fino a oggi. Come sembra non importare il caso del Newcastle, appunto, o quello del Paris Saint-Germain, controllato dagli emiri del Qatar. Il calcio europeo nelle mani di personalità, fondi, Stati, avvolti da vicende controverse, per non dire legati a doppio filo con regimi in cui sono violati i più basilari diritti umani. Fino a che punto siamo disposti a barattare i successi della nostra squadra con il far finta di nulla a proposito di tutto questo?

I tifosi di Chelsea e Newcastle, ma anche quelli di Paris Saint-Germain e Manchester City, hanno preso la loro posizione. Netta, chiara. Sono tutti tifosi che devono molto ai loro proprietari in termini di successo della loro squadra: inimmaginabile prima di loro, irripetibile senza di loro. Ci sono club che hanno costruito la loro grandezza e prestigio indipendentemente da chi si è succeduto alla loro guida, pur essendo stati determinanti più di altri nel farlo. Ma nel caso di questi club – si potrebbe inserire anche il network Red Bull, per certi versi – lo stravolgimento è fin troppo evidente da non poter condizionare il modo in cui i tifosi guardano a chi ha cambiato per sempre la storia e le ambizioni della loro squadra.

Il suddetto scenario determina che il club non è solo di chi lo possiede, ma è chi lo possiede. La sovrapposizione è semplice e perfetta. Lampante, perché fare il tifo per il Chelsea vuol fare il tifo per Abramovich. E viceversa: cantare per Abramovich è cantare per il Chelsea. Le differenze non si distinguono più, i limiti diventano sfocati. Verso chi rivolgere la propria passione? In fondo è la stessa cosa. Chi vuole “ripulire” la propria immagine e credibilità internazionale, ha nel calcio un’occasione d’oro. Lo sportswashing può suonare come un concetto remoto, eppure è sotto i nostri occhi. Anche quelli dei tifosi del Chelsea: ma li si può biasimare per essersi “dimenticati”, in tutti questi anni, di chi è davvero Roman Abramovich?

Nasser Al-Khelaifi, presidente del Psg, nel corso della presentazione di Neymar come nuovo giocatore dei francesi: è l’acquisto più costoso di sempre (LIONEL BONAVENTURE/AFP via Getty Images)

Oggi il tema è giocoforza più forte, stonato. Stride con la nostra passione: il tifoso vuole vincere ma vuole soprattutto sognare. L’onesto imprenditore della porta accanto potrà mai garantirti l’arrivo di Messi o prometterti la Champions League nel giro di pochi anni? Il calcio è business e potere, soldi e visibilità. Ha una dimensione globale e trasversale impossibile da ignorare. Così gli Abramovich e gli Al Thani continueranno a fiorire tra gli spalti degli stadi più importanti d’Europa. Non sorprende che tra i possibili successori alla guida del Chelsea ci sia il Saudi Media Group: gli unici, o quasi, che possono mettere sul piatto i 3,2 miliardi di euro richiesti da Abramovich. Ancora una connessione con una situazione politica fragile: ma è un gruppo indipendente dal regime saudita, si rincorrono le voci inclini alle rassicurazioni. Continuare a far finta di niente, questo è il mantra, almeno finché la squadra è tra le prime quattro in campionato ed è vicino all’acquisto di quel giovane talento sudamericano.

Ma bisogna pure ammetterlo: il tifoso non può essere demonizzato. Dovesse pure tifare la squadra del peggior criminale al mondo. Ma le istituzioni, fin qui, ci hanno raccontato che tutto va bene, che tutto è sempre andato bene. Che l’arrivo di certi capitali porta solo benefici, che i Mondiali organizzati in Qatar sono un’opportunità. Salvo poi, al primo contrordine, rimangiarsi tutto. Il Chelsea che si sgretola da un giorno all’altro, parallelamente alle notizie preoccupanti che arrivano dall’Ucraina, colpisce: perché è l’immagine più potente di come da un oligarca arricchitosi in circostanze poco limpide dipendano le sorti di una delle squadre più importanti al mondo. Anzi: di una comunità. E se il calcio, la nostra passione, si riscopre ostaggio di altri fini, non è mai una buona notizia.