È arrivato il Canada

I Canucks tornano ai Mondiali dopo 36 anni, e non è un caso: Alphonso Davies e Jonathan David guidano un gruppo giovane e multietnico, che pratica un calcio offensivo e spettacolare.

St. John’s, la città più antica del Canada, sorge sulla punta orientale della penisola di Avalon, provincia di Terranova. Un posto ideale per osservare le balene, più vicino a Londra che a Vancouver, costantemente spazzato dai venti gelidi dell’Atlantico. Proprio per questo, trentasette anni fa, il Canada ha scelto di giocare qui, in uno stadio improvvisato ricavato all’interno di un parco pubblico, la sfida decisiva con l’Honduras per la qualificazione a Mexico 1986. La mossa ha dato i suoi frutti: approfittando di un avversario in preda ad un vero e proprio shock climatico, i Canucks hanno vinto 2-1 con rete decisiva di Vrablic, volando al Mondiale per la prima volta nella loro storia.

Nulla di tutto questo è stato necessario oggi (se si esclude il match con il Messico giocato nella ghiacciaia di Edmonton), anche perché il contesto è completamente cambiato. Negli ultimi anni il calcio ha fatto molti progressi in Canada, un Paese fondato sulla religione laica dell’hockey su ghiaccio: lo scorso ottobre, per la prima volta dal 1997, i Canucks sono entrati nella top 50 del ranking FIFA. Ma questa è solo la punta dell’icerberg di un movimento in crescita costante. La svolta è arrivata nel 2007, quando Toronto è stata la prima franchigia della foglia d’acero a entrare nella MLS, seguita a ruota dai Vancouver Whitecaps nel 2011 e dal Montréal Impact nel 2012. «Lo sbarco della Major League Soccer nel Paese ha solleticato l’immaginazione degli appassionati di sport canadesi, che si sono progressivamente avvicinati al calcio, iniziando ad investire in esso e quindi a contribuire al suo sviluppo», ha spiegato Duane Rollins, podcaster tra i massimi esperti sul tema, in una conversazione con il Los Angeles Times.

Un’altra tappa fondamentale è stata la pubblicazione, nel 2014, di un piano strategico federale di crescita e sviluppo, lanciato sull’onda dell’entusiasmo dei grandi successi della Nazionale femminile (medaglia d’oro a Tokyo qualche mese fa). Denominato pomposamente “Leading a Soccer Nation” e basato su quattro verbi chiave (investire, garantire, governare e incoraggiare), il manifesto è stato rinnovato nel 2019 con l’introduzione di nuovi obiettivi. Alla redazione hanno partecipato anche i tifosi tramite il web: migliaia di supporters canadesi hanno collaborato con la Federazione, inviando consigli e suggerimenti su come far progredire il movimento. Anche “Return to Play”, l’ultima iniziativa di partecipazione popolare in vista del quadriennio 2022-2026, ha avuto un grande successo. In Canada, insomma, i tifosi hanno acquistato un peso non più trascurabile dalle istituzioni calcistiche, come testimonia la vertiginosa crescita dell’audience delle partite della Nazionale in tv.

La pensa così anche Nick Bontis, il presidente della Canada Soccer Association: «Non c’è mai stato un momento migliore per essere un tifoso di calcio in Canada, e per sostenere le nostre squadre nazionali». Le statistiche, del resto, parlano chiaro: secondo un report diffuso dal Canadian Youth Sports, nel 2018 in Canada c’erano più di quasi 800mila bambini di età compresa tra i tre e i 17 anni che giocavano a calcio. Numeri addirittura superiori a quelli dell’hockey (530mila). Nonostante questo storico sorpasso, Graeme Ivory – capo dell’area stampa dell’Ottawa Fury FC – non si stupisce più di tanto: «L’accessibilità economica rispetto ad altri sport è un fattore determinante, soprattutto per le famiglie che emigrano in Canada. Per loro il calcio è anche uno strumento di integrazione», ha dichiarato al portale charlatan.ca.

In ultimo, ma non per importanza, c’è da considerare un altro aspetto fondamentale: la nascita (nel 2019) della Premier League canadese, uno dei pilastri del programma di sviluppo della CSA. L’idea alla base della creazione della nuova lega era quella di aumentare la partecipazione e coinvolgere le realtà più periferiche, valorizzando al massimo i talenti locali: «Vogliamo aiutare la crescita del calcio canadese. Abbiamo promesso ai canadesi che l’avremmo fatto», ha raccontato entusiasta David Clanachan, il commissioner della CPL. I risultati sembrano dare ragione alle politiche della federazione: i calciatori canadesi che militano in squadre europee non sono mai stati così tanti; a differenza del 1986, quando erano solo in tre (Vrablic, Samuel e Bridge), oggi i Canucks di stanza nel Vecchio Continente sono 15. A cominciare, ovviamente, da Alphonso Davies, il testimonial naturale della nuova generazione. La parabola del terzino sinistro del Bayern Monaco sembra uscita da una scenografia hollywoodiana: nato all’interno di un campo profughi in Ghana, dove i genitori erano stati costretti a scappare all’inizio della guerra civile liberiana, è arrivato in Canada come rifugiato all’età di cinque anni. Dieci anni dopo ha fatto il suo esordio da pro con i Vancouver Whitecaps, poi a gennaio 2019 il Bayern Monaco ha sborsato quasi 19 milioni di euro per portarlo in Germania. Quella di Davies, tuttavia, non è una storia isolata, anche perché ha a che fare con i cambiamenti in corso all’interno della società canadese: Jonathan David, l’altra star dei Canucks, si è trasferito in Canada a sei anni dopo essere nato a New York da genitori haitiani.

Jonathan David e Tajon Buchanan esultano dopo un gol segnato contro El Salvador: l’attaccante del Lille è a quota 30 gol in 75 partite ufficiali con la squadra francese, nella quale si è trasferito prima dell’inizio della stagione 2020/21 (Vaughn Ridley/Getty Images)

La demografia in Canada è in continua evoluzione: oggi un canadese su cinque è immigrato, e si prevede che entro il 2036 la quota salirà a uno su tre. Tutto ciò si riverbera anche sul calcio: il roster della nazionale, ad esempio, sembra un manifesto alle politiche d’accoglienza introdotte ai tempi di Leaster Pearson, Premio Nobel per la pace nel 1957, e proseguite oggi dal governo liberale guidato da Justin Trudeau. «Abbiamo colombiani, uruguaiani, scozzesi, serbi, giamaicani, portoghesi. Questa è la nostra bellezza e allo stesso tempo la nostra forza», ha spiegato John Herdman, ct della nazionale dal gennaio del 2018. Anche Herdman non è canadese: è nato a Sunderland, in Inghilterra, e ha iniziato ad allenare ai tempi dell’università. Le sue doti gli hanno permesso di diventare uno dei pochi tecnici capaci di non soffrire il passaggio dal calcio femminile a quello maschile: dopo due argenti olimpici con le ragazze canadesi (Londra 2012 e Rio 2016), la Federazione gli ha affidato la panchina dei Canucks. Prima di lui, solo il cinese Li Xiaopeng e il norvegese Per-Mathias Høgmo hanno guidato entrambe le rappresentative senior. L’offerta è arrivata in modo inaspettato, ma è stata impossibile da rifiutare. Anche perché fare bene con i ragazzi sarebbe servito anche alle donne: «Avevamo bisogno di più soldi per migliorare il sistema, c’era la necessità di creare lega femminile professionale. L’unico modo per ottenere più fondi era avere una Nazionale maschile competitiva, in grado di qualificarsi costantemente per i Mondiali», ha raccontato Herdman a Sky Sports.

Partecipare alla Coppa del Mondo era un obiettivo decisamente ambizioso, considerando la storia dei Canucks: un solo Mondiale, come detto, e una sola Gold Cup, conquistata nel 2000. Se poi aggiungiamo che, all’arrivo di Herdman, i Canucks erano fuori dalla top 100 del Ranking Fifa, non raggiungevano l’Hoctagonal – l’adrenalinico final round delle eliminatorie CONCACAF – dal 1998 e avevano appena fallito la qualificazione alla Gold Cup 2018, la missione del nuovo ct sembrava quasi impossibile. Non era soltanto un problema di rosa: mancavano più che altro fiducia, autostima e consapevolezza. Sono arrivate tutte insieme grazie alla vittoria contro gli Stati Uniti in una partita di CONCACAF Nations League, più volte individuata da Herdman come la gara della svolta. In un certo senso è come se quel successo avesse prodotto una sorta di switch mentale, alimentato a sua volta anche dallo stesso ct: il suo spregiudicato 4-2-2-2 è nato proprio in occasione di quella partita, ed è sembrato una manifestazione di intenti per il futuro. «Per noi è stato uno shock. Nessuno era abituato a quel tipo di calcio offensivo. Il mister voleva cogliere di sorpresa gli Stati Uniti e ci è riuscito», ha raccontato il centrocampista Samuel Piette a The Athletic.

In realtà, però, Herdman non è un integralista. Anzi, la parola più importante del suo vocabolario è senza dubbio flessibilità: di uomini, ma anche di schemi. Nel corso dell’Hoctagonal, il ct inglese ha cambiato spesso a livello tattico ed é passato con disinvoltura dalla difesa a tre utilizzata nelle prime gare a una linea a quattro o persino a cinque – come avvenuto nel match pareggiato in casa degli Stati Uniti. Zero deroghe, invece, per quanto riguarda i principi di gioco: l’idea è sempre stata quella di attuare un calcio aggressivo e verticale, teso a esaltare al massimo la potenza di fuoco di un reparto avanzato in cui trovano spazio almeno tre giocatori tra Alphonso Davies, schierato qualche metro più avanti rispetto a quanto gli capita al Bayern Monaco, Tajon Buchanan – un’ala dal dribbling facile appena sbarcata in Europa, al Bruges – e poi Jonathan David e Cyle Larin, che di recente ha spodestato il leggendario Dwayne De Rosario dal trono dei cannonieri all time della nazionale.

I gol del Canada nel percorso di qualificazione ai Mondiali 2022

Davies, ovviamente, è il sole del sistema canadese, anche se da qualche mese il terzino del Bayern è ai box a causa di alcuni problemi legati all’infezione da coronavirus. Non a caso uno dei pattern più gettonati dai Canucks è quello di risalire il campo con rapidità e cercare lui oppure Buchanan, così da sfruttare le loro enormi qualità nell’uno contro uno e la capacità di servire assist invitanti per Larin e David. Vale a dire la coppia gol più prolifica delle qualificazioni CONCACAF: insieme hanno realizzato undici reti (sei Larin, cinque David) nell’Hoctagonal. Anche se può sembrare un tipo di calcio frenetico e reattivo, basato molto sull’atletismo e la fisicità dei suoi interpreti, il Canada ha anche la qualità per attuare una fase di prima costruzione e sviluppo più ragionata, specie quando affronta squadre con un atteggiamento iperdifensivo e molto attente a non concedere la profondità. Il merito è soprattutto di Stephen Eustaquio, centrocampista di origine portoghese – attualmente in prestito dal Porto al Paços Ferreira – corteggiato personalmente da Herdman, che ha viaggiato più volte in Europa per convincerlo ad accettare la convocazione. Affiancato da Osorio e da un equilibratore come il veterano Atiba Hutchinson, Eustaquio guida una cerniera di centrocampo solida e compatta, ma anche piuttosto fluida e di qualità: «È un giocatore molto intelligente che ci permette di passare con facilità da un sistema di gioco ad un altro», ha detto il ct inglese.

In difesa Herdman chiede ai suoi giocatori di essere coraggiosi, di chiudere in avanti e di attaccare gli avversari sul viaggio della palla. L’intercetto sistematico, un fondamentale nel quale il Canada primeggia anche grazie alle spiccate abilità di giocatori come Steven Vitoria e Alistair Johnston, permette di attuare transizioni piuttosto veloci, ideali per sprigionare tutto il potenziale di giocatori come Davies, Buchanan e David. I dati lo confermano: il Canada, che vanta il minore possesso medio delle Big Three (54% a dispetto del 61% Messico), si trova al primo posto per numero di possessi conquistati nella trequarti avversaria (136 contro gli 80 degli USA secondi) e di tiri in porta per incontro (6,5 contro i 4,6 del Messico secondo).

Questa nuova mentalità portata da Herdman, insieme ai talenti di una generazione d’oro forse irripetibile, ha determinato l’exploit del Canada. I Canucks, dopo aver maramaldeggiato nel primo round (quattro vittorie con 27 reti segnate e solo una subita), hanno disputato un Hoctagonal da favola, ridisegnando completamente le gerarchie della zona centro-nordamericana a spese di Messico e Stati Uniti. Che la Nazionale di Herdman facesse sul serio, lo ha dimostrato raccogliendo punti in tutti duelli con i giganti storici dell’area, battuti nelle gare casalinghe – come non succedeva dal lontano 1976. La vittoria sulla Giamaica, che ha riscattato il primo ko di queste eliminatorie (tre giorni fa in Costa Rica), ha fatto staccare il biglietto per il Qatar, atteso per quasi quarant’anni dal pubblico canadese. Adesso il Canada è davvero sulla mappa del calcio mondiale. D’ora in poi i Canucks non saranno più «l’unica cosa di cui deve vergognarsi lo sport canadese», come aveva scritto qualche anno fa in maniera sprezzante un quotidiano di Montreal.