Tu che domini Milano

San Siro ha quasi cento anni, eppure è ancora uno degli stadi più belli d'Italia. Ha una storia antica, nobile, che affonda le sue radici in quella della città, ben oltre il calcio e lo sport.

Il più delle volte succedeva attorno al quarantesimo del primo tempo, ma se si trattava di una partita importantissima – importanti lo erano tutte, visto che si giocavano a San Siro – qualcuno anticipava per garantirsi la posizione migliore, come il velocista che prova a fregare lo starter. Attorno al quarantesimo alcuni cronisti si staccavano dai banchi riservati ai loro giornali e, camminando piegati per non ostruire la visuale alle grandi firme deputate a raccontare la partita, si riunivano in gruppetto alla ringhiera che divideva la tribuna stampa da quella d’onore. Stadio di San Siro, primo anello centrale: lì dove adesso siedono gli ospiti vip, gli sponsor plus e i funzionari corporate, c’erano i media prima che si chiamassero media. Tre file di banchetti di legno a due posti per la carta scritta, le cabine sul corridoio superiore per le radio e le televisioni, che pensando di essere spiritosi chiamavamo “carta parlata”.

Ogni domenica pomeriggio le varie testate spedivano a San Siro squadre di giornalisti le cui diverse mansioni erano rigidamente divise. La grande firma, come abbiamo visto, raccontava la partita e stilava le pagelle; il titolare della copertura del club, Milan o Inter che fosse, al 90° si accomodava in sala stampa per le conferenze degli allenatori; i suoi vice, almeno un paio, aspettavano i giocatori che dopo la doccia – a richiesta (!) – affluivano nel salone riservato alle interviste; il “colorista”, una bella penna non necessariamente preparata dal punto di vista tecnico, isolava un momento del match e lo narrava con toni poetici o, nei casi migliori, ironici. Infine, quello che ero nel 1984, l’anno del mio approdo a Milano alla Gazzetta dello Sport: l’ultimo arrivato che doveva curare i personaggi della tribuna d’onore. Così anch’io, attorno al quarantesimo, mi appoggiavo alla ringhiera scrutando le possibili prede.

Si trattava in genere di un lavoro collettivo, i più esperti e spigliati individuano le figure più interessanti e, al fischio dell’arbitro, cominciavano a chiamarle a gran voce per titolo (Presidente!, Senatore!, Ministro!) o, nel caso di personaggi dello spettacolo, per nome (Ornella!, Pippo!, Ugo!, che Tognazzi al Milan veniva quasi sempre). La cosa divertente – oggi incredibile e me ne rendo conto, per cui fidatevi – era che i chiamati spesso rispondevano con uno scatto e, dribblando scorte che allo stadio allentavano la guardia, si precipitavano a raccontarci che il migliore era stato Zenga, che il Baresi più forte era quello milanista, che l’arbitro invariabilmente pendeva un po’ dall’altra parte. Il più generoso era Bettino Craxi, altro habitué del Milan specie dopo l’acquisto da parte di Silvio Berlusconi, al cui matrimonio con Veronica Lario aveva fatto da testimone. Craxi non rifiutava alcuna domanda, per cui se te ne preparavi una buona c’era il rischio che la risposta finisse in prima pagina. Io feci il colpo il giorno in cui era di scena un Milan minore – doveva essere ancora di Farina – sesto o settimo in classifica, e gli chiesi se riteneva più probabile uno scudetto rossonero o la salute del governo, che in quel periodo i socialisti avevano messo in fibrillazione. Craxi colse al volo l’occasione, e rispondendo «vedo molto meglio il Milan» aprì in pratica la crisi di governo, come il Corriere della Sera intuì con prontezza visto che il giorno dopo la battuta (spiegata) del segretario del Psi era il titolo d’apertura della prima pagina. Un’altra volta, in piena trattativa per il rinnovo del contratto giornalistico nazionale, il mio amico Germano Bovolenta – portentoso narratore dei fatti milanisti – chiese a Craxi se non pensava che la nostra categoria meritasse stipendi migliori. Era una domanda del tutto fuori contesto, ma quello non si tirò indietro e declamò solenne «i giornalisti devono guadagnare di più!»: la battuta fece il giro delle redazioni, venne stampata su ogni quotidiano (più di un editore si lamentò con il direttore per l’omessa vigilanza) e poi ritagliata e incollata su armadietti e scrivanie.

San Siro era il teatro meraviglioso di queste gustose commedie. San Siro e mai il Meazza, per noi della Gazzetta. Era successo infatti che la proposta di intitolare lo stadio milanese al più grande campione dell’antichità calcistica – forte del fatto che, dopo una carriera all’Inter, all’inizio della guerra avesse giocato due anni nel “Milano” (che poi era il Milan “italianizzato” del periodo fascista), quindi in qualche modo condiviso – fosse partita dalla Notte, il quotidiano del pomeriggio che prima di venire spazzato via dalla televisione era arrivato a vendere 250mila copie sotto la direzione del grande Nino Nutrizio. La Gazzetta dell’epoca, guidata dall’ancor più grande Gino Palumbo, agiva col piglio imperiale del primo giornale italiano (non primo sportivo, primo tout court): se una proposta non era sua, non esisteva. Il che significava un tratto di penna del caporedattore sulla dicitura Meazza che inevitabilmente compariva nei primi resoconti dei cronisti debuttanti. «Ti ho salvato la carriera», mi disse, correggendo, «chiamalo sempre San Siro e non ti preoccupare delle ripetizioni. In questo caso e soltanto in questo sono ammesse».

San Siro era il tempio. Sacro nei giorni delle partite, laico nelle sere dei concerti. Il primo al quale mi capitò di assistere da quello che oggi è il secondo anello arancio (la gradinata opposta all’attuale tribuna stampa) resta il Concerto, ovvero il più grande evento musicale visto in Italia: Bruce Springsteen, 21 giugno 1985. La prima venuta del Boss riempì lo stadio in modo inverosimile: lui piazzò il palco sotto alla curva Nord e suonò per quattro ore l’intero repertorio con una generosità artistica, e anche fisica, mai vista né prima né dopo. E non è tutto. A gasarmi moltissimo fu il particolare che al mattino il Boss s’era preso un paio d’ore – lo faceva ovunque suonasse per la prima volta – per verificare che gli immani altoparlanti fossero piazzati in modo da creare un’acustica perfetta in ogni zona di San Siro; e dunque mi immaginai Bruce Springsteen correre nei vari punti dell’enorme impianto vuoto per ascoltare un paio di note e dire «okay, qui va bene, adesso salgo al secondo anello blu…». Il professionismo dei fenomeni.

Qualche tempo dopo il Comune annunciò in pompa magna il progetto di ampliamento richiesto dall’imminente svolgimento in Italia del Mondiale 1990. Come scrive Antonio Cunazza, l’animatore della rivista Archistadia, San Siro è uno stadio-matrioska: nato nel 1926 su input del presidente del Milan Piero Pirelli (sì, quella Pirelli: curioso che poi il marchio sia diventato partner strettissimo dell’Inter), partì con quattro tribune rettilinee capaci di 35mila spettatori. Ci giocava il solo Milan, visto che l’Inter continuava a preferire l’Arena; sarà così fino al 1947, quando lo stadio già ampliato una prima volta nel 1935 con la costruzione dei raccordi tra le quattro tribune – capienza aumentata a 55mila – diviene anche la casa dell’Inter. Perché matrioska? Perché il secondo ampliamento, quello che nel 1955 tocca la soglia degli 85mila posti (ma solo 60mila a sedere), consiste nella posa di un secondo anello esattamente sopra al primo.

La struttura del “catino” rimane, a sostenere il nuovo giro di gradinate è un sistema di bellissime rampe d’accesso a forma di elica. Anche l’ampliamento del ‘90 è un’aggiunta: terzo anello su tre lati, tenuto su da nuove rampe d’accesso di forma cilindrica esterne al catino di prima. E visto che sul quarto lato, quello che dà sul vecchio ippodromo del trotto, non c’è spazio, il progetto prevede un’asta di suite, i cosiddetti sky-box, posata in orizzontale sopra la tribuna arancio. Di quella presentazione ricordo gli occhi a forma di dollaro, come nei fumetti, dei dirigenti Milan/Fininvest accorsi, Adriano Galliani in testa: per un’azienda che viveva di comunicazione e pubblicità, la possibilità di regalare ai propri clienti migliori un’esperienza unica come un partitone visto in modo così confortevole ed esclusivo doveva essere impagabile. Difatti non ci fu nulla da pagare, perché l’asta degli sky-box sparì dal progetto il giorno di apertura lavori, e nessuno ne seppe più nulla.

Dal nostro punto di vista fu un disastro: alcune suite vennero comunque aperte al primo anello, sopra la tribuna d’onore, in una riorganizzazione generale degli spazi che spostò la tribuna stampa al secondo anello. Più lontani dal campo, più lontani dalle panchine, più lontani dai vip: oggi nessun giovane cronista può farsi le ossa parlando di arbitri con un ministro in carica o una soubrette in tiro.

L’8 giugno 1990 i campioni uscenti dell’Argentina scesero in campo a San Siro contro il Camerun nella gara inaugurale del campionato del mondo. Al culmine della cerimonia d’apertura, Gianna Nannini ed Edoardo Bennato cantarono sotto alla tribuna centrale, rivolti al resto dello stadio, la prima esecuzione ufficiale di “Notti magiche”, una canzone bellissima – per essere una sigla, s’intende – cui lo sfigato finale della Nazionale di Azeglio Vicini affibbiò una pessima nomea. Di solito queste sentenze sono per sempre; stavolta invece, a distanza di 31 anni, l’Italia di Roberto Mancini ha restituito l’onore a “Notti magiche”. Insigne & co. la cantavano a squarciagola dopo ogni vittoria, e l’Europeo l’abbiamo portato a casa noi.

Quel giorno Diego Maradona avviò il terzo dei suoi quattro Mondiali con un’amara sorpresa: il calcio africano aveva fatto i compiti, e in coda a un match giocato alla pari il Camerun approfittò di un erroraccio del portiere argentino Pumpido per vincere 1-0, gol storico di François Omam-Biyik. Per il resto, San Siro in quel Mondiale fu la casa della Germania, che ci giocò le tre gare del girone, l’ottavo con l’Olanda e il quarto con la Cecoslovacchia. La spina dorsale dei tedeschi era composta da Matthäus, Brehme e Klinsmann, tutti e tre tesserati con l’Inter, che fu ben lieta di cedere alle truppe guidate da Beckenbauer – è inutile, quando si parla di tedeschi le metafore belliche si scrivono da sole – l’uso di Appiano Gentile. La cosa divertente è che Jürgen Klinsmann era uno spirito un po’ differente dal kit del calciatore base: d’estate, per capirci, non andava in vacanza in Costa Smeralda, ma si metteva lo zaino in spalla e faceva l’autostop in America. Così, davanti a qualche difficoltà nel mantenere un morale decente dopo la seconda settimana di ritiro, fu lo stesso Matthäus a consigliare al Bundestrainer di permettergli di dormire a casa sua, lì vicino, sul lago di Como. Da bravo professionista non se ne sarebbe approfittato per serate di pazza gioia, e la sensazione di libertà avrebbe migliorato il suo livello di gioco. Come in effetti successe.

Le foto d’epoca pre-1990 mostrano cinture ordinate di macchine parcheggiate attorno alla stadio, nel piazzale: saranno decine di migliaia, si vede che a San Siro andavano tutti in auto. L’ultima ristrutturazione si è svolta a metropolitana (da tempo) funzionante: non si arrivava ancora davanti all’impianto, ma si scendeva alla fermata della linea rossa di piazzale Lotto. Partivano da lì le transumanze bibliche di viale Caprilli, migliaia di persone in cammino sul lato lungo dell’ippodromo per il galoppo fino al piazzale dello Sport, quello che introduce allo stadio. L’edificio d’angolo tra viale e piazzale è un condominio piccolo e molto elegante: ci abitava Arrigo Sacchi nella prima fase della sua avventura al Milan, ma non lo sapeva nessuno perché lui, a scanso di equivoci, non s’affacciava mai. Una sera mi invitò a casa per un’intervista, e non ci volevo credere: in linea d’aria il suo appartamento era in assoluto il più vicino al centro del campo. Scontata la battuta: «Quando mi manderanno a casa non dovrò camminare molto».

 

Voglio molto bene a San Siro, lo considero un luogo dell’anima dalla prima volta che ci misi piede – Inter-Pisa 3-0 dell’11 marzo 1984 – perché era ed è bellissimo e perché per me, e per tanti che hanno fatto e fanno il mio mestiere partendo dalla provincia, ha sempre costituito un primo punto d’arrivo. Se lavoro a San Siro, vuol dire che ci sto riuscendo. Tempo fa mia madre, rovistando in un cassetto dimenticato, ha trovato una fotografia in cui sono seduto al banco della Gazzetta, impegnato al telefono a dettare qualcosa: accanto a me c’è Angelo Rovelli, il “monumento” del quale quel giorno ero l’indegno assistente, e su di noi incombe la sagoma inconfondibile di Gianni Brera. Beh, brividi.

Ho visto centinaia di partite a San Siro, ma certi campioni non si confonderanno mai nella memoria quantitativa. Saranno sempre qualità. La quaterna di Marco van Basten al Göteborg, con una sforbiciata da strabuzzare gli occhi: se soltanto avessimo saputo che quello era l’ultimo grande recital del James Dean del calcio… L’eleganza del lob di Ronaldo su Sebastiano Rossi nel derby del ‘98, assist impeccabile di Moriero. La presa del potere a San Siro da parte di Kaká, in un altro derby, e il drammatico 4-3 col quale l’Inter di Mancini, forte di Crespo, di Ibra e di Stankovic, avviò la sua dominazione nell’anno post-Calciopoli. E poi gli avversari delle milanesi e le loro imprese, con un nome su tutti: Francesco Totti, che tra il pallonetto all’Inter dopo un coast-to-coast e le mirabilie contro il Milan (qualcuno ricorda la rabona mancina di Aquilani che, passando per il piede di Amantino Mancini, giunse sulla testa implacabile di Francesco?), usciva sempre da San Siro salutato da un sob di universale rimpianto. Perché questo sa essere uno stadio altezzoso e pretenzioso, ritiene che non tutti i giocatori vi si possano esibire, anzi, ma rimpiange chi potrebbe e per scelta non lo fa: Totti e Zidane hanno sempre generato nei milanesi desideri irrealizzabili.

Non è a quelli come me – che ci hanno passato così tanta vita – che si può chiedere dell’opportunità di costruire un impianto nuovo. Costruitelo pure, ma senza radere al suolo il nostro amato vecchio stadio, ché lo fareste per un solo motivo: impedire alla gente di dire un giorno “ma non era meglio San Siro?” col tono del bimbo che esclama “il re è nudo”. La Cattedrale, il nuovo progetto, è un concentrato di maestosità e bellezza che può convivere col Tempio. Presto compirà cent’anni e nel mix comodità-capienza rimane incontestabilmente il migliore d’Italia: nel senso che lo Juventus Stadium è bellissimo e funzionale, ma di spettatori ne tiene la metà, e passata la pandemia questo tornerà a essere un parametro da considerare. Senza contare che Inter e Milan, oggi rifiorite nell’alta classifica, hanno riempito San Siro pure negli anni in cui stentavano ad arrivare fra le prime quattro. Era come se la gente, non potendo tifare per una causa di classifica sufficientemente alta, andasse allo stadio con l’animo del guardiano, del testimone la cui presenza impediva ai giocatori di scendere oltre la linea della miseria tecnica. San Siro è abitato dal suo genius loci: che indossi un mantello regale o un cappotto pieno di toppe, il suo animo sarà sempre nobile.

Da Undici n° 43
Foto di Matteo de Mayda