La carriera di Mesut Özil ha seguito la stessa parabola di un fuoco d’artificio, uno di quelli a fontana che accendono il cielo nella notte di San Silvestro: una corsa veloce verso l’alto, un’esplosione accecante di luce e di bellezza, una caduta – verticale, lenta, inesorabile – con qualche ultimo sbrilluccichio di colore, infine uno spegnimento malinconico. Tutto condensato in poco tempo, o comunque in un tempo minore rispetto a quello che ci aspettavamo. Che speravamo. Ora siamo nella fase dello spegnimento, anzi siamo già oltre: Özil aveva smesso di essere un giocatore di primo livello già da un po’, e adesso ha smesso di essere un calciatore vero. È successo pochi giorni fa, quando è stato sospeso dalla rosa del Fenerbahce per motivi imprecisati. Lui stesso, intervistato su Youtube dal media Playspor, ha raccontato che «mi trovavo in Germania per qualche giorno libero, sono tornato e ho telefonato per informarmi sull’orario degli allenamenti. Mi è stato detto che non dovevo presentarmi, senza ulteriori spiegazioni».
Alcune indiscrezioni dalla Turchia e dall’Inghilterra raccontano che la decisione di metterlo fuori rosa sia arrivata dopo uno o più litigi con l’allenatore Ismail Kartal, o comunque al culmine di un contenzioso con la società in relazione al suo (lauto) stipendio e alle sue distrazioni extracampo. In realtà conoscere il vero motivo dell’ultimo strappo non ha alcuna importanza, è già abbastanza triste pensare che Mesut Özil, uno dei calciatori viventi più fantasiosi e belli da veder giocare, abbia solo 33 anni e sia arrivato al punto da dover telefonare a un dipendente del suo club per sapere quando deve andare ad allenarsi. Come se fossimo ancora negli anni Novanta. Come se lui non fosse Mesut Özil.
Quando si parla di calciatori che non sono riusciti a mantenere le promesse e le premesse dei loro esordi, questi vengono inseriti nel gruppo dei talenti sprecati. È una prassi veloce e inevitabilmente molto superficiale, è un rifiuto della complessità che mette tutti nello stesso calderone: le vicende di un Balotelli, di un Edmundo o di un Adriano, per esempio, non hanno nulla a che vedere tra loro e sono lontanissime da quelle di un Owen, di un Recoba o di un Nasri, e non perché esistano differenti gradi di giudizio per i giocatori che hanno vissuto problemi personali e per quelli che hanno avuto tanti infortuni o delle semplici incomprensioni con gli allenatori, ma perché ogni storia è una storia a sé, perché ogni disagio è una vicenda personale e va affrontato con rispetto. Ecco, partendo da questi presupposti è evidente che Mesut Özil meriti di appartenere al club dei talenti sprecati, anzi forse dovrebbe essere eletto presidente a vita di questo ente immaginario. Ma è anche doveroso chiedersi: perché e soprattutto come è andato sprecato il suo talento? Cos’è andato storto nella carriera di Özil?
C’è chi ha provato a rispondere a questa domanda andando oltre l’etichetta semplificata e semplicistica dei problemi di testa o di mentalità, scegliete la formula che preferite. Si tratta del difensore spagnolo Nacho Monreal, che oggi gioca nella Real Sociedad e che ha condiviso gli anni più belli e importanti della sua carriera con Mesut Özil: «Il suo problema», ha detto Monreal in un’intervista a FourFourTwo, «è che ha avuto problemi con tutti: Wenger lo adorava eppure tra loro è finita male, poi è arrivato Emery e la sua intenzione era quello di renderlo il leader dell’Arsenal. Dopo un po’, però, il mister si è accorto che altri giocatori stavano meglio di Mesut e l’ha messo ai margini della squadra». In fondo è andata così anche con il Real Madrid e con la Germania: a un certo punto è successa una cosa – nella fattispecie: a Madrid è stato decisivo l’arrivo di Bale e la conseguente necessità di sfoltire la rosa e fare cassa, con la Nazionale è finita male per una foto/incontro con Erdogan che aveva tutta l’aria di essere un endorsement politico – che ha interrotto il flusso, che ha cancellato la magia. A quel punto, non c’era più spazio per Özil.
Non è eccessivo pensare che intorno alla figura di Özil ci siano stati anche degli equivoci percettivi. Quel suo danzare in campo con sfrontatezza e con una perenne aria di superiorità appiccicata in volto, quella sua classe regale che si rivelava a intermittenza, quella sua prossemica mai davvero agitata, sempre in surplace e quasi infastidita, erano tutte cose che lanciavano dei segnali contraddittori, se non proprio sbagliati. Lo ha detto una volta Arsène Wenger, forse vale la pena credergli: «Mesut lavora duramente, molto più duramente di quanto non pensi la gente. È solo che a volte il suo linguaggio del corpo finisce per farlo apparire diverso da ciò che è. Non è vero che non gli importa niente, del calcio».
Ecco, probabilmente il fatto che Wenger si sia sentito in dovere di dire quest’ultima frase, di precisare questo concetto così banale, spiega perché, a un certo punto di tutte le sue esperienze, la qualità di Özil non sia più bastata a giustificare tutto il resto: Özil trasmetteva la sensazione di non dover e (soprattutto) di non voler migliorare, dava la sensazione di essere una persona per cui le sue doti naturali erano così pure e assolute che non c’era bisogno di nient’altro che andare in campo e aspettare che si manifestassero, che trattava il suo talento come come se svolgesse qualsiasi altro lavoro per cui ci vuole un minimo di creatività – il vetraio, il pasticciere, il musicista – quando invece lui giocava a calcio, per di più ai massimi livelli, e allora avrebbe dovuto alimentare costantemente quel fuoco, perché è così che fanno i fuoriclasse.
Tutto questo ci dice che forse è solo una questione di tempi sbagliati. Che se Özil fosse nato negli anni Cinquanta o Sessanta e quindi avesse fatto il calciatore negli anni Settanta e Ottanta, un’era in cui il calcio era un gioco meno veloce e meno fisico e in cui la sua indolenza – anche solo presunta – sarebbe stata scambiata per una personalità da leader antisistema, allora oggi sarebbe ricordato e venerato come un grande fuoriclasse. In effetti basta riguardare le sue partite ai Mondiali 2010, le migliori esibizioni con la maglia del Real Madrid e l’entusiasmo incontenibile dei tifosi dell’Arsenal dopo l’annuncio del suo arrivo a Londra per rendersi conto che no, non sarebbe un’ipotesi così assurda. Anzi, il fatto che un fantasista dal gioco così visionario e così anarchico e così intermittente sia riuscito a fare grandi cose – ha vinto un Mondiale da protagonista, è bene ricordarlo – nel calcio sistemico e ipertrofico di oggi dimostra che sì, Mesut Özil aveva davvero qualcosa più di quasi tutti gli altri calciatori della sua, della nostra epoca. Ma non era abbastanza.
The reaction when Arsenal signed Mesut Ozil. pic.twitter.com/m0A6V7Ud7B
— Sky Sports Retro (@SkySportsRetro) January 7, 2021
L’entusiasmo di cui abbiamo parlato
Quando Mesut Özil ha accettato l’offerta del Fenerbahce e ha preso il volo per trasferirsi in Turchia, il sito di tracciamento aereo Flightradar ha rilevato che la rotta del Dassault Falcon 8X su cui viaggiava è stata seguita in diretta da oltre un milione di persone, con un picco di 312.676 connessioni contemporanee. Tutti, alla luce di questa attesa pazzesca e di ciò che l’uomo-Mesut e il calciatore-Özil avrebbero trovato a Istanbul, pensavamo che avremmo rivisto il miglior Mesut Özil: stava per iniziare a giocare in un club che lo aveva desiderato, che lo avrebbe atteso e capito e coccolato, che non gli avrebbe messo addosso le stesse pressioni del Real Madrid o dell’Arsenal, che sarebbe stata casa sua per tanti motivi – tecnici, economici, culturali, addirittura politici. Era come se Ôzil avesse accettato di essere il giocatore descritto da Arsène Wenger nella sua autobiografia, vale a dire «un artista che sente il calcio attraverso tutti i pori della sua pelle e della sua anima, che ha bisogno di essere costantemente incoraggiato, di sentire la fiducia del suo allenatore, di essere supportato nel modo giusto, senza essere troppo duri con lui». Insomma, sembrava che il Fener potesse dargli tutto questo.
E invece non sono serviti neanche l’ambiente giusto, una tifoseria calda e appassionata, il suo amore dichiarato per il Fenerbahce, perché Özil potesse trovare la sua reale dimensione, il suo vero posto nel calcio e nel mondo. O almeno questa è la visione che si ha da fuori, seguendo e reinterpretando le linee narrative ultraromanzate che da sempre associamo allo sport, agli sportivi. Forse Mesut Özil vive davvero il calcio in un modo che è solo suo, che gli altri non possono comprendere e accettare: una volta, per esempio, disse che «se una partita non va bene o gioco una brutta palla, io mi sento frustrato e lo mostro all’esterno». Nel calcio di oggi un giocatore così volubile ci può stare fino a un certo punto, ma il vero nodo della questione è che probabilmente Özil ci è voluto e ci vuole stare fino a un certo punto. Perché magari ha altri interessi – secondo The Athletic avrebbe avuto delle frizioni con il Fenerbahce anche per via della sua carriera parallela da imprenditore – oppure perché, molto più semplicemente, è fatto così. Forse a Özil è bastato sciorinare il suo talento per un po’, fino a quando e fino a dove si è fatto trascinare dalla sua ambizione e dalla sua indole, non un istante o un centimetro di più. Di certo noi avremmo voluto vedere un po’ di più della sua classe, e non riusciamo ad accettare il fatto che la luce calcistica di Özil si sia spenta da un po’, che ora si sia spenta del tutto. E che a Mesut Özil sia andata e vada bene così, soprattutto.