Qualcuno lo chiede ancora, ma ormai è diventata una battuta, una presa in giro, qualcosa che ha perso completamente il significato inquisitorio originale. «Ma tu stive a Bari-Cittadella?», tu c’eri a Bari-Cittadella? Un’anonima sfida giocata in Serie B nell’aprile 2002 e che sarebbe scivolata rapidamente nell’anonimato, non fosse stato per quel numero: 51, corrispondente agli spettatori paganti (abbonati esclusi). Il riferimento massimo per esibire la “purezza” della propria fede e al tempo stesso scrutinare quella altrui. Una piccola storiella che racconta molto del tifo barese: surreale, iperbolico, sospettoso. Laddove gran parte delle tifoserie cementa il proprio orgoglio attorno ai momenti apicali come le vittorie di uno scudetto o di una Champions, a Bari “io c’ero” conta solo quando non c’era nessun altro sul serio.
Il tifoso che tifa solo Bari ne fa un vanto. Ha il bisogno e l’ossessione di farlo presente, avverte il diritto di distinguersi dalla massa. La massa incarna il peccato originale: il doppiofedismo, l’essere occasionali, per non dire l’uno e l’altro insieme. Negli anni bui della contestazione contro i Matarrese (da qui la cinquantina di paganti di quei pomeriggi poco interessanti, per usare un eufemismo) i tifosi che ancora continuavano a seguire le sorti della squadra intonavano “Ti seguo sempre anche se perdi sempre”. L’orgoglio nella disfatta e nella rassegnazione: non ti restava più niente, se non quel tifo sbrindellato e malandato. Anche quello che canti certifica che tipo di tifoso sei. Nei mesi di fibrillazione estrema della “meravigliosa stagione fallimentare”, quando i biancorossi sfiorarono la Serie A con una società che aveva portato i libri in tribunale, Bari risuonava costantemente dello stesso coro: “Forza la Bari alè, canto, vivo per te”. Mi trovavo con un gruppetto di tifosi quando un ragazzotto tarchiato eruppe stancamente: «Basta con questi cori sputtanati», preferendo “lanciarne” uno che gli ricordava la “purezza” tipica degli spalti deserti di qualche anno prima.
Bari è una città umorale e impossibile, quando si parla della sua squadra di calcio. Troppo piccola e con una marcata subalternità alle grandi del Nord per un tifo epico e romanzato come a Napoli, troppo grande e con un’identità forte per una semplice simpatia di contorno. Bari, il (o la) Bari, è nel mezzo di un equilibrio utopico tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Lo stadio è lo specchio di tutti i suoi controsensi. Una struttura imponente, esagerata, con i suoi quasi sessantamila posti a sedere, una finale di Champions e una finalina dei Mondiali nel suo curriculum. Uno stadio da notti europee, per una squadra di Serie C. Perennemente semideserto, invecchiato e corroso dal tempo in soli trent’anni. Odiato, molte volte. Con quella pista di atletica ad allontanare i tifosi e il loro sostegno dal campo. È il simbolo della promessa mai mantenuta dei Matarrese e di chi è venuto dopo di loro: «Datemi un grande stadio e vi darò un grande Bari».
Il tifo per il Bari è un grande interruttore. Si accende, molto più facilmente si spegne. È una città che non ha problemi a portare oltre ventimila spettatori in Serie C o in Serie D. Figurarsi nelle categorie più importanti. Ma è anche difficile da accontentare. Nelle ultime settimane, con la squadra prima in classifica in Serie C, il presidente Luigi De Laurentiis non ha nascosto il suo disappunto: «Ci manca il pubblico». Nelle prime due partite del 2022 gli spettatori non sono mai stati più di cinquemila. L’interrogativo di sempre che, di colpo, torna a fare capolino: cosa tifa Bari?
È il terzo anno di fila in Serie C, dopo la promozione dalla D nel 2019 a seguito del fallimento, il secondo in quattro anni. Non considero, né l’ho mai fatto, seguire una squadra in C come un atto eroico o rivoluzionario. Men che meno un sacrificio, o una privazione di qualcosa. L’amore e la passione per una squadra non si misurano in rapporto alla categoria in cui gioca o a quello che vince: non è tifo, quello. Non si spiega come si tifa una squadra di Serie C: si tifa esattamente come si è fatto per anni, decenni. Anni in cui Bari ha visto anche la Serie A, ha visto la sua squadra battere le “strisciate”, come le chiamiamo noi, ha potuto crogiolarsi all’idea di una trasferta europea (sogno rimasto irrealizzabile, ma questo meriterebbe un pezzo a parte). Tutto questo non è durato mai troppo a lungo: la grandeur biancorossa presa a pugni dalla realtà. E la realtà sa essere spietata.
Nell’estate del 2018 siamo passati nel giro di poche settimane dal disputare i playoff per la promozione in Serie A alla mancata iscrizione in Serie B, con la condanna della ripartenza dalla Serie D. Siamo rimasti soli, noi con il nostro tifo, il tifo fragile per il Bari. Nel momento più buio ci siamo invece scoperti potenti. Più di quattromila persone si sono recate al vecchio stadio Della Vittoria, con il sindaco Decaro hanno deciso che cosa ne sarebbe stato di questa loro sofferta passione. Hanno intonato a gran voce l’inno della squadra, “non ti lasceremo da sola, mai”, non si sono arresi di fronte alla peggiore delle catastrofi sportive. Per questioni anagrafiche non ho mai visto il Bari giocare in quello stadio, ma ho impresso nella memoria uno striscione posto in cima alla curva: “Il nostro è un giorno che non avrà mai fine”, c’era scritto. E quindi non c’è stata nessuna fine, abbiamo continuato a tifare, come sempre. Qualche mese prima lottavamo per la Serie A, a settembre di quell’anno ci trovavamo in D con una nuova società e un gruppo di calciatori radunato in una manciata di giorni. Per la prima partita di campionato, una trasferta a Messina vinta 3-0, non c’era nemmeno la diretta tv. Eppure ho atteso quella partita con la stessa emozione e attesa di sempre. Non ho alternative e non ne desidero.
Come me, i tifosi del Bari rimangono tantissimi. Come me, moltissimi tifosi del Bari vivono altrove. È un meccanismo che ho imparato essere potentissimo: non è una regola, ma succede spesso che il coinvolgimento nei confronti del Bari aumenta proporzionalmente alla distanza dalla sua città. Tifare il Bari vuol dire anche questo: tifare la propria identità, il proprio dialetto, le proprie tradizioni. Da dove si viene. È possibile valga ovunque nella stessa misura, ma alcuni dei momenti più divertenti, e incredibilmente significativi, li ho vissuti in sonnolente cittadine del Nord in compagnia di perfetti sconosciuti. In trasferta, con un’unica passione in comune: il Bari. Il Bari è quella cosa che, di ritorno da un derby di Milano, ti fa parlare con un estraneo, sciarpa biancorossa al collo, sulla metropolitana. Della partita del Bari, ovviamente. Qualche categoria più in basso.
E questo mi colpisce. Tifare Bari è difficile, non tifare ancora di più. “È una malattia che non va più via”, si canta. Cosa tifa Bari? Io non lo so. Ma questa è una città che calcisticamente è stata fin troppo maltrattata: il calcioscommesse, due fallimenti in quattro anni, un presidente finito qualche anno dopo ai domiciliari. Quindi la Serie D a distanza di oltre cinquant’anni, e poi la C. La speranza di un riscatto che non arriva mai.
Qualche anno fa, prima che nascesse il nuovo gruppo ultras, era issato un semplice striscione lì dove gli storici Ucn prendevano posto, in corrispondenza della balconata della curva Nord: “Bari merita rispetto”. Si potrebbe aggiungere: “Essere del Bari merita rispetto”. E non perché ci siamo presi in faccia umiliazioni contro la Virtus Francavilla o la Viterbese e nonostante tutto abbiamo continuato, la domenica dopo, ad andare allo stadio o ad accendere la tv. Perché abbiamo scelto una cosa fragile e preziosa, e abbiamo promesso di custodirla. Il Bari non morirà mai finché ci sarà anche un solo tifoso che avrà a cuore le sorti della squadra. Di fronte a questo, non c’è fallimento o retrocessione che tenga. “Mi raccomando al Bari”, le parole pronunciate da Angelo De Palo, presidente del Bari tra gli anni Sessanta e Settanta, in punto di morte, quelle che tutti noi tifosi biancorossi, una volta nella vita, abbiamo ripetuto a noi stessi. Mi raccomando al Bari. È tutto lì.