Tutti vogliono bene a Jürgen Klopp

Il manager del Liverpool ha saputo costruirsi un personaggio con un indice di gradimento altissimo, è una popstar ma sembra anche genuino, è un genio che non si prende mai davvero sul serio.

Quando penso a Jürgen Klopp, penso allo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie. La prima immagine che mi si forma nella mente quando penso a Klopp è quella dei suoi denti: grandi, bianchi, esposti, espressivi, proprio come quelli dello Stregatto che si materializza davanti ad Alice. Poi il ritratto si completa con tutti i dettagli: la barba incolta il giusto, gli occhiali grandi, i ciuffi di capelli biondi, il cappello con la visiera, la tuta, tutti i segni che con il passare degli anni sono arrivati a “significare” Klopp. Ma la prima immagine è sempre quella dei denti. Non del sorriso, perché Klopp non scopre i denti solo quando sorride: li scopre in una varietà di situazioni per dimostrare una varietà di emozioni. Tutti quanti si ricordano la sua reazione al gol di Higuain in quella partita di Champions League tra il Borussia Dortmund e il Napoli, all’allora stadio San Paolo, nel 2013: denti scoperti e digrignati, la mascella disallineata e serrata, un’immagine di rabbia che non poteva che portare all’espulsione – allora gli arbitri non potevano ancora sventolare i cartellini sotto il naso degli allenatori – e trasformarsi poi in un meme.

Questa espressività estrema di Klopp spesso è stata portata a dimostrazione della sua genuinità: non può né fingere né evitare di assumere quelle espressioni, di indossare quelle maschere. E dall’espressività alla genuinità, il discorso su di lui arriva sempre alla simpatia: Klopp è simpatico perché non finge, è amabile perché non interpreta un personaggio. È sé stesso: «Sono solo un tizio della Foresta Nera, mia madre è molto contenta che io sia venuto a lavorare qui», disse nella prima conferenza stampa da allenatore del Liverpool, rispondendo a chi gli chiedeva se gli sarebbero riusciti ancora una volta i miracoli di Dortmund e di Mainz. C’è chi lo ha sempre considerato un attore, in realtà: in certi momenti un monologhista del teatro, in altri un comico degno del Comedy Cellar. La sua prima frase da allenatore del Liverpool ricordava moltissimo la frase più nota di uno dei più famosi attori degli anni 2000: James Gandolfini, che quando di lui parlavano come del “Mozart della recitazione” per la sua interpretazione di Tony Soprano, rispondeva sempre «sono solo un tizio grasso e scemo del New Jersey». Se non si è trattato di citazione, sicuramente è stata un coincidenza assai esplicativa: great minds think alike. Menti da attori.

Spesso si dice che Klopp sia simpatico. Ma tra essere simpatici ed essere divertenti c’è una differenza e questa differenza sta nel lavoro (si potrebbe parlare del mestiere dell’attore, per riprendere l’accostamento con Gandolfini). Su sé stessi e sull’ambiente circostante. Klopp è certamente un uomo simpatico, nel senso di capace di quella spontaneità che coglie di sorpresa e che suscita l’ilarità. Nel 2018, durante la conferenza stampa prima della sfida di Champions League contro il Psg, riuscì a disperdere in un attimo la seriosità di queste circostanze con un vero e proprio capolavoro di improvvisazione: ascoltando la suadente voce dell’interprete che gli traduceva la domanda fatta da un giornalista francese, Klopp scoppiò a ridere e poi commentò «una voce davvero erotica. Congratulazioni. Wow. Ancora, per favore». Klopp, però, è soprattutto un personaggio divertente, cioè il risultato di un lavoro lungo, faticoso e meticoloso. Scrittura e interpretazione, una costruzione basata sul tempismo e sulla sorpresa («fare il comico significa saper cogliere di sorpresa», ripete sempre Jon Lajoie). Una volta un tifoso dello Schalke, l’altra metà del derby della Ruhr, gli chiese qual era il segreto per vincere la Bundesliga. «Come si fa a spiegare a un cieco che cos’è il colore», fu la sua risposta, one-liner micidiale che lo fece ascendere da allenatore vincente del Dortmund a vero e proprio idolo del Signal Iduna Park, volto per sempre scolpito nel Muro Giallo. Viene da chiedersi da quanto tempo tenesse pronta quella battuta: certe immagini, certe metafore non si improvvisano. Scrittura, interpretazione, tempismo, sorpresa.

Klopp non è solo un attore ma è anche un paraculo, dicono i detrattori. In effetti, negli anni ha dimostrato un certo talento per l’equilibrismo. Nell’epoca degli scontri ideologici e dei dibattiti identitari, lui è sempre riuscito a stare dalla parte giusta della storia e della polemica. A piacere a tutti, a rappresentare tutti, senza mai aderire a una scuola di pensiero che non fosse la sua e senza mai accettare una risposta che non avesse formulato lui stesso. Da questo punto di vista, il suo rapporto con Guardiola è la spiegazione perfetta: per Klopp, Pep è rivale, riferimento, bersaglio. Non ha mai nascosto di considerarlo l’allenatore più rilevante prodotto dalla sua generazione. E non ha mai perso l’occasione di lanciargli frecciatine: quando Mario Götze decise di andarsene al Bayern Monaco, Klopp confessò di considerarsi il principale responsabile della scelta del giocatore. «Guardiola lo adora. Se va via è colpa mia che non riesco a diventare più basso e a imparare lo spagnolo».

Pare che quando allenava il Dortmund, ai suoi giocatori ripetesse sempre che non avrebbe mai voluto vederli giocare come i blaugrana ma che pretendeva di vederli esultare come loro: «Festeggiano ogni gol come se fosse il primo. È la cosa giusta da far vedere alla mia squadra. Lo faccio spesso. Mostro fotografie delle esultanze del Barcellona. Non uso i video perché non voglio copiare il loro stile. Ma quando li vedo festeggiare il gol 5868 come se non ne avessero mai segnato uno prima, penso che è così che bisognerebbe sentirsi sempre. Fino al giorno della propria morte». Un piccolo racconto che contiene tutte le spiegazioni della simpatia che Klopp suscita in tifosi, simpatizzanti, appassionati, osservatori. L’entusiasmo fanciullesco per il gioco. L’ossessione del cultore per i dettagli. L’opinione forte del pensatore radicale: il Barcellona non gli piace, è l’equivalente calcistico della musica d’orchestra, lui preferisce l’heavy metal, il calcio della corsa (in una vecchia intervista a FourFourTwo disse che era proprio quella la parola che meglio riassumeva la sua filosofia calcistica: corsa). L’onestà intellettuale del vero intenditore: nonostante tutte le differenze e divergenze, all’epoca il Barcellona era la squadra da prendere come punto di riferimento.

Nel corso della sua carriera in panchina, Klopp ha vinto dieci trofei, cinque con il Borussia Dortmund e cinque con il Liverpool; da quando guida i Reds, ha accumulato 225 vittorie, 83 pareggi e 60 sconfitte in 368 partite ufficiali di tutte le competizioni (Catherine Ivill/Getty Images)

Klopp ha sempre lavorato molto alla costruzione di un personaggio che fosse anche e soprattutto un working class hero: «Avevo un talento da dilettante e un cervello da Bundesliga. È così che sono arrivato a giocare in Zweite Liga», ha detto spesso. Klopp piace anche per questo: perché ha sempre rimarcato la distanza che lo separa dalla vera élite del pallone, da quelli che nel sangue hanno ereditato i quattro quarti di nobiltà come Guardiola, da quelli che hanno raggiunto il successo (quasi) al primo tentativo come Mourinho, da quelli che si sono arrampicati su per la scala sociale grazie a un approccio simil-accademico come Wenger. Klopp ha sempre cercato di raccontarsi come uno che ha avuto bisogno di tempo e pazienza per arrivare al successo. Da che ha cominciato a parlare in inglese, una delle sue frasi preferite è diventata «those who stop never get rewarded»: chi si ferma è perduto, e si torna a quell’ossessione per la corsa di cui si è detto prima. Un’immagine proletaria che i tifosi delle sue squadre (e non solo) adorano, in cui credono fermamente. Nonostante gli anni e i successi abbiano portato analisi di Klopp che hanno confermato un’altra versione dei fatti, una biografia che contraddice il personaggio. C’è un aneddoto che torna spesso nelle discussioni su Klopp, citato sempre da chi vuole dimostrare che il vero genio, il vero predestinato, è proprio lui: Jens Haas era un compagno di scuola e di squadra di Klopp, e quando avevano undici anni giocavano nelle giovanili del SV Glatten e seguivano tutte le partite dello Stoccarda alla radio, sempre insieme. Ogni volta Klopp riusciva a prevedere i cambi che lo Stoccarda avrebbe fatto. Haas ha detto di averlo sempre considerato un genio, di aver sempre saputo che sarebbe diventato un allenatore.

C’è un episodio rimasto nell’immaginario collettivo degli appassionati di calcio tedeschi che dimostra quanto la “simpatia” di Klopp sia il frutto dello stesso lavoro “cerebrale” che lo ha portato dalla piccolissima borghesia dei calciatori all’aristocrazia degli allenatori. Quando allenava il Dortmund, Klopp non ha mai fatto mistero della sua antipatia per il Bayern: «Noi siamo l’arco e le frecce e loro il bazooka», disse una volta. Nel 2011 vinse la Bundesliga con il Borussia Dortmund, con l’arco e con le frecce, strappando il titolo proprio al Bayern, al battaglione armato di bazooka. L’anno prima Louis van Gaal, allenatore dei bavaresi, aveva affermato la supremazia sua e dei suoi con una parola: Feierbiest, le anime della festa. Nessuno festeggia come il Bayern Monaco, nessuno festeggia come Van Gaal, disse l’allenatore olandese. L’anno dopo, Klopp decise di dare un significato nuovo alla parola Feierbiest. Nella festa in piazza assieme ai tifosi, il momento memorabile è il suo ingresso in scena: occhiali da sole scuri a coprire le occhiaie lasciate dai festeggiamenti, la voce arrochita dai giorni di gioia urlata, i pantaloni leggerissimamente cadenti, come alla fine di una serata andate per le lunghe. Ad accompagnarlo sul palco, un inno dance scritto apposta per lui da Baron Von Borsig: “Kloppo du Popstar”, cantato in coro da tutti i tifosi gialloneri, migliaia raccolti lì in quel giorno di festa.

In molti, in quelle immagini, videro soltanto un uomo buffo, simpatico, divertente. Nei ricordi di Klopp, invece, quella festa fu la dimostrazione che i più forti si possono battere e che alla gloria si può tornare, una convinzione che lo porterà poi fino a Liverpool. Oggi, in quelle immagini si può vedere una verità che all’epoca nessuno poteva cogliere: la nascita di una popstar, forse l’unica, vera popstar propriamente detta del calcio contemporaneo. Kloppo du Popstar, appunto.