Vincenzo Italiano, un uragano in Serie A

La sua Fiorentina è diventata subito una delle squadre più interessanti d'Italia, dal punto di vista tattico e anche dei risultati. Ed era andata così anche con lo Spezia.

Dal punto di vista strettamente contenutistico, la tesi con cui Vincenzo Italiano ha conseguito il Master UEFA-Pro di Coverciano nel settembre 2020 – quando era già un allenatore di Serie A, sulla panchina dello Spezia – non è così rivoluzionaria e innovativa come sarebbe stato lecito aspettarsi da un tecnico che ha costruito gran parte della narrazione che lo circonda sul coraggio e la forza delle sue idee. La parte più interessante del suo lavoro non è quella in cui Italiano parla della costruzione dal basso e del recupero palla nella trequarti offensiva e del controllo costante dei flussi di gioco, piuttosto quella in cui racconta sé stesso nella transizione da giocatore ad allenatore, due facce della stessa medaglia legate da una diversa percezione del contesto. Perché «un conto è giocare e pensare da allenatore, sentirsi allenatore, un altro è esserlo per davvero». Questa sottolineatura della differenza tra reale e percepito è il topos ricorrente del lavoro di Italiano, è il filo conduttore che permette di orientarsi tra i vari paragrafi in cui emerge come il suo pensiero tattico, più che nei singoli aspetti di campo, si sostanzi nel modo in cui riesce a tradurre le sue parole nei fatti. a mettere la teoria in pratica.

Scrivere e raccontare dell’attuale tecnico della Fiorentina, perciò, significa scrivere e raccontare di un preciso modus operandi prima ancora che di moduli, principi, atteggiamento, caratteristiche dei calciatori a disposizione: «Se voglio che la mia squadra sia brava a giocare a calcio… devo farla giocare a calcio!», questa è la frase che chiude il primo capitolo della tesi. Una tautologia, certo, una delle tante che si susseguono in quasi 83 pagine, ma anche l’unica chiave di lettura possibile affinché ci si concentri sull’unica cosa che conta davvero, cioè sul percorso individuale e collettivo che porta una squadra a esprimersi al meglio delle sue possibilità attraverso un’identità riconosciuta e riconoscibile.

In un’intervista concessa a Repubblica a fine febbraio, Italiano ha detto che il calcio non è un fenomeno complicato ma complesso: «Devi pensare a molto, a tutto, curare i particolari. E io difficilmente stacco. Devi vedere quello che c’è fuori e dentro il campo. Contano le statistiche, i numeri, gli avversari, tutti quei dati che oggi si possono avere, ma quando sono in panchina io mi fido dei miei occhi. Mi piace che una squadra sia riconoscibile. Per carattere e identità. Poi discutiamo anche delle percentuali del possesso palla». Potrebbe sembrare la classica risposta a effetto controculturale e antisistema, tanto più nell’epoca dei match analyst e delle rose pensate e costruite attraverso il metodo Moneyball. E invece è la spiegazione dell’unicità di Italiano, la perfetta sintesi tra due categorie dialettiche, tra due scuole di pensiero che sono in opposizione più per eccesso di semplificazione che per una concreta adesione alla realtà dei fatti: il tecnico della Fiorentina non può certo essere considerato un copernicano come Guardiola o un guru alla Bielsa, ma non rientra nemmeno in quella categoria di allenatori che sembrano rifiutare aprioristicamente l’evoluzione del gioco e la necessità di nuovi mezzi e strumenti per comprenderlo. Italiano riconosce il valore dello studio e dell’aggiornamento costante per essere sempre al passo coi tempi, ma è anche uno che ritiene «indispensabile», fino a consigliarla, la gavetta in funzione di una migliore comprensione e padronanza della componente istintiva, emotiva ed emozionale del gioco, per arrivare con l’istinto e l’elasticità mentale laddove lavagne e schemi non riescono: «Quando ti trovi con l’acqua alla gola è utile ricordare che in certe situazioni, forse anche peggiori, ci sei già stato e ne sei venuto fuori. Provare, sbagliare, aggiustare, rimediare, resistere. Serve averlo già fatto».

L’approdo alla Fiorentina, una tappa intermedia all’interno di una carriera che sembra essere già decollata, definisce la complessità di Italiano: è una scelta che va in aperta controtendenza rispetto alla precocità con cui si è affermato, alla velocità con cui molti suoi coetanei si sono già seduti su panchine importanti, quasi come se volesse darsi il giusto tempo per continuare a esplorare e superare i propri limiti prima del passaggio a un livello successivo e ulteriore, quasi come se volesse evitare di fare il passo più lungo della gamba, perché preso dall’eccessiva euforia o dalla troppa fiducia nelle proprie capacità. Qualcosa che, fatte le dovute proporzioni, gli accadde in occasione del suo primo gol in Serie A, realizzato il 5 novembre 2000 in un Verona-Inter tutt’altro che indimenticabile: già ammonito, si guadagnò il secondo giallo a causa di un’esultanza sfrenata sotto la curva. «Nella foga mi ero dimenticato che a Verona c’è la pista attorno al campo», ha raccontato in seguito. Un errore di valutazione e d’inesperienza che oggi non vuole e non può concedersi, nonostante la prova del campo lo abbia già confortato circa la bontà delle sue intuizioni.

La sua Fiorentina, così come lo Spezia 2020/21, è infatti una delle squadre più interessanti da vedere e analizzare per l’aggressività che esprime nella fase di non possesso, per la varietà di soluzioni che propone nell’attacco dello spazio in verticale, per il sistema di isolamenti pensato per mettere gli esterni – Ikoné e Nico González, ma anche i loro supplenti – nelle condizioni  di creare costantemente la superiorità numerica sull’esterno, per la ricostruzione tecnica e psicologica di Torreira e Saponara, per il fatto che due centrali come Igor e Milenkovic riescano a tenere la linea alta attraverso la ricerca sistematica dell’anticipo sul centravanti avversario e per l’utilizzo alternativo da sweeper keeper di Dragowski e Terracciano senza perdere efficacia nella prima costruzione. Su quest’ultimo aspetto, Italiano è ultramoderno: «Per me il portiere è un calciatore di movimento che va coinvolto nel gioco. Deve parare, ma anche aggiungersi al centrocampo, essere un altro attaccante, l’uomo in più. Passare la palla indietro non è un’onta, né una rinuncia, è un modo per far ripartire il gioco con razionalità e con un’idea». La cosa più interessante della sua Fiorentina, però, è la capacità di non dipendere dai singoli, in un’applicazione pratica ed estensiva del concetto di «tutti registi» che ricorre nel primo capitolo della tesi.

Il riferimento è, ovviamente, a Dusan Vlahovic e alle modalità con cui Italiano è riuscito a mantenere elevati gli standard della Fiorentina nonostante la cessione di un calciatore così decisivo e totalizzante nell’ultimo terzo di campo: dal 6 febbraio, giorno del debutto con gol di Vlahovic con la Juventus, la Fiorentina ha un rendimento migliore rispetto ai bianconeri – 20 punti in nove partite per i viola, 21 punti in dieci gare per la squadra di Allegri – e ha segnato appena tre gol in meno. E, ancora una volta, bisogna guardare all’effetto e non alla causa, al come e non al cosa: privato del suo finalizzatore principale e in attesa che Cabral implementi quel set di movimenti codificati che Vlahovic aveva fatto suoi in pochissimo tempo, Italiano ha deciso di portare ancora più dentro il campo i due esterni offensivi, che si alternano nell’occupazione dello spazio alle spalle della seconda linea di pressione e a ridosso della prima punta, lasciando al terzino e alla mezzala di riferimento il compito di associarsi e creare situazioni di superiorità posizionale finalizzate a muovere la difesa su un lato per poi spostare palla sull’altro.

Napoli-Fiorentina 2-3, forse la miglior vittoria/prestazione della squadra di Italiano in questa stagione

I primi due gol realizzati allo stadio Maradona di Napoli, realizzati proprio da Gonzalez e Ikoné, spiegano come la radicalizzazione di un principio possa diventare una virtù, anche se legata a delle contingenze, a delle necessità. Sono due azioni che raccontano come un tecnico superficialmente dipinto come giochista sia in realtà il più pragmatico dei risultatisti, che ha fatto del fattore estetico il mezzo al servizio del fine, cioè vincere il maggior numero possibile di partite. Che, poi, è ciò che fa qualsiasi allenatore di alto livello al netto di una contrapposizione narrativa tra estetica ed efficacia che in realtà non esiste e che ha finito con il far passare in secondo piano l’aspetto più importante, quello della funzionalità: «Se vuoi ottenere qualche risultato non puoi non giocare bene. E giocare bene significa tutta un serie di cose: stare attenti a entrambe le fasi, aggredire le partite, proporre qualcosa. Quando speculi di partite ne vinci pochine. Se hai qualche idea, invece, puoi mettere in difficoltà chiunque. Ma alla fine ciò che conta è solo la posizione che si occupa a fine campionato», disse lo scorso anno in un’intervista al Corriere dello Sport. E in questa stagione, se possibile, ha chiarito ulteriormente il concetto sia nella conferenza stampa di presentazione, quando lo slogan «nessun limite, solo orizzonti» dei tempi di Trapani ha lasciato il posto a un più prosaico «difendere bene, attaccare benissimo», che dopo la semifinale d’andata di Coppa Italia contro la Juventus, una partita che la Fiorentina avrebbe meritato di vincere e che, invece, si è trovata a perdere a causa dell’autogol di Venuti al 92’: «Tutta Firenze deve sperare che questa squadra rimanga tale per il resto delle gare di campionato e per il ritorno in Coppa, penso che a Firenze ci potremo togliere tante soddisfazioni. Sarà difficile perdere tante partite giocando così».

Il cambio di paradigma che Italiano ha imposto, e sta imponendo, al calcio italiano va però oltre tutto questo. È una questione di visione, di progettualità, di aderenza a caratteristiche e contenuti che non eravamo abituati a considerare come prioritari nel giudizio complessivo sul valore di un allenatore e che invece si stanno dimostrando tali, soprattutto in un momento in cui la geografia del pallone sta ridisegnando i propri confini relegando l’Italia a un ruolo di secondo e terzo piano. Dire che Italiano sia un tecnico nuovo, fresco, moderno, che pratica un calcio “vendibile” a tifosi e investitori e che prima di molti sta riuscendo ad adattarsi al mutato rapporto tra ciò che a un allenatore viene richiesto e ciò che un allenatore effettivamente fa con il materiale umano a disposizione, è certamente vero ma non è tutto. Si tratta di creare un valore che sia allo stesso tempo tecnico ed economico – a livello di potenziale del parco giocatori ma non solo – di portare avanti progetti che sappiano coniugare risultati e futuribilità, di non fossilizzarsi sulle proprie idee se queste non portano a un riscontro concreto e tangibile. Sono queste le sfide che attendono i tecnici di oggi e di domani ma sono anche la risposta alla domanda che Italiano si è posto all’inizio della sua tesi: «Perché faccio l’allenatore?». Oggi questo perché appare piuttosto chiaro, a lui e agli altri. E si vede.