Ricardo Kaká, un’apparizione

Ricordo dell'arrivo in Italia di un grande fuoriclasse, che oggi compie quarant'anni.

Ci sono poche e selezionate frasi della nostra vita di cui abbiamo il privilegio di ricordare esattamente il giorno, l’ora e le parole esatte. Io, per esempio, ricordo come fosse stamattina il momento in cui ho espresso la mia prima opinione su Kaká. Era la sera di venerdì 28 agosto 2003: mentre da un 14 pollici uscivano a volume spento le immagini dei minuti finali della Supercoppa Europea, di un Milan-Porto che Ancelotti stava portando a casa grazie a un colpo di testa di Shevchenko su uno dei cinquemila stupendi assist di Rui Costa, io avevo 17 anni ed ero impegnato nell’asta del Fantacalcio a casa di non ricordo più quale amico. Eravamo alle battute finali dei centrocampisti e quelli che avevano già completato il reparto scarabocchiavano le strategie per gli attaccanti sui cartoni delle pizze. Ancora uno slot da riempire, stropicciando i pochi fogli di Gazzetta rimasti per cavare qualche estemporaneo ragno dal buco. Io potevo dirmi già soddisfatto, avendo già preso Nedved, Emerson e Marchionni, ma quando qualcuno pronunciò il nome di Kaká e subito dopo farfugliò poco convinto “uno”, la voce dell’istinto mi spinse a rilanciare: due! 2 e uno, 2 e due, 2 e tre, preso. Seguì un silenzio dei presenti nemmeno imbarazzato, semplicemente indifferente. Neppure io ero convintissimo. Così, per dare valore alla mia scelta, proclamai a voce alta: “Ma sì, al limite a gennaio lo danno in prestito all’Ancona”.

Così dissi. Il mattino dopo c’era già da consegnare la formazione della prima giornata e il Milan giocava proprio ad Ancona, la squadra in cui secondo le mie previsioni Kaká sarebbe andato a svernare al mercato di riparazione, dopo cinque mesi di tribuna chiuso da Rui Costa e Rivaldo. Da qui in avanti la storia diventa familiare anche a voi: a sorpresa Kaká gioca titolare per dare respiro a Rui Costa e i milanisti di tutto il mondo fanno conoscenza con un ragazzo che gioca semplice, senza paura di provare il tiro da fuori, e nella ripresa assistono al progressivo montargli della fiducia al cospetto di questo famoso calcio europeo in cui molti trequartisti brasiliani ci hanno lasciato le penne.

Certo, aiuta molto il fatto di avere di fronte una delle peggiori squadre della storia della Serie A, ma il secondo tempo di Ancona è come il timelapse di un germoglio che sboccia, fino alla scena madre intorno alla mezz’ora: ricezione palla pochi metri dietro la metà campo, sombrero sul numero 7 Berretta, improvviso cambio di passo – il primo cambio di passo di circa un migliaio, tutti micidiali, tutti spacca-gambe – e corridoio luminoso per scatenare i cavalli di Cafu, che chiuderà l’azione con un assist perfetto per il secondo gol di Shevchenko.

Benvenuto Kaká

Per la generazione di milanisti che si è persa l’infinito sbarluccichìo degli anni Novanta e individua nella finale di Manchester il primo capitolo della propria educazione sentimentale, Ricardo Izecson dos Santos Leite vale Marco van Basten. La stessa grazia, la stessa leggerezza, la stessa onnipotenza calcistica. A metà degli anni Duemila si contendeva la palma del Migliore con Ronaldinho, e non c’erano e non ci sono mai stati due fantasisti brasiliani più diversi: ai funambolici barocchismi del Dentone, Kaká opponeva un rigore geometrico, un’esattezza kubrickiana: era un numero 10 che sapeva che la linea più breve per andare dal punto A al punto B era la linea retta e senza indugio la percorreva, anzi la cavalcava con incedere da eroe buono dei western, senza la possibilità che il finale fosse diverso da uno scontato happy end. Al limite veniva abbattuto dall’avversario, ma si rialzava prontamente entro tre secondi: le pallottole nemiche non lo ferivano mai, per una qualche strana mistica, come Kevin Costner in quella celebre scena all’inizio di Balla coi Lupi, e anzi solitamente questi ripetuti capitomboli portavano in dono caterve di cartellini gialli – in un derby dell’ottobre 2004 fece ammonire quattro interisti diversi, Cordoba Materazzi Favalli e Cambiasso, tutti costretti a falciarlo per disperazione.

Dicevamo però del paragone col Cigno, che oggi farebbe storcere il naso ai milanisti over 40 e del resto è improprio per molti aspetti: innanzitutto perché Van Basten era molto più cattivo, ruvido e spigoloso anche nel privato, e forse per questo inviso agli dei che invidiosi lo tormentarono alle caviglie, mentre Kaká con l’Altissimo ci andava abbastanza d’accordo fin dalle generalità bibliche (“Riccardo figlio di Isacco latte dei santi”) ereditate dal papà Bosco, ingegnere civile, e dalla mamma Cristina, professoressa di matematica e autrice di ciambelle strepitose. In linea di massima Kaká non ha mai avuto un solo motivo per stare sulle scatole a qualcuno, men che meno ai suoi allenatori. Anzi, ha avuto la fortuna di averne uno ideale per scatenarne il genio a perdifiato: avesse conosciuto Ancelotti solo qualche anno prima, chissà in quali lacci e lacciuoli tattici sarebbe finito imbrigliato. I milanisti più cinici e malmostosi gli rimproverano ancora oggi il passaggio al Real, che nell’estate 2009 scatenò i primi veri moti di protesta anti-berlusconiana e causò il dimezzamento del numero degli abbonati a Milan Channel. Ma anche al momento di salire sul charter per Madrid lasciò sul comodino 64 milioni, mica zero come qualcun altro, e a conti fatti – visto il rendimento spagnolo men che mediocre di Kaká, finito a essere uno dei tanti nel pasticciato firmamento di Florentino Perez – quell’affare fu uno degli ultimi capolavori finanziari di Adriano Galliani.

Per sei stagioni e trecento partite, Kaká fu puntualmente atteso al varco, in attesa del passaggio a vuoto che dimostrasse che il suo exploit era stato un fuoco di paglia, e che ormai “i difensori italiani avevano imparato a conoscerlo” – uno dei luoghi comuni più micidiali del nostro giornalismo a cui non è sfuggito nessuno, fossero anche il Ronaldo brasiliano e il Ronaldo portoghese. Quel momento non arrivò mai. In compenso giocò partite poetiche sia nella buona che nella pessima sorte, per esempio il primo tempo di Istanbul. Decine di volte i portieri si fecero il segno della croce guardandolo caricare dal limite dell’area l’interno destro inevitabilmente calciato a fil di palo o traversa, secco e imperioso come una porta sbattuta dal vento. Lo slalom assurdo contro il Fenerbahce alla prima partita in Champions dopo il trauma della finale 2005. Ovviamente l’intera Champions League 2006/07 che culminò nel primo tempo di un’altra Manchester, in un ambiente decisamente più ostile del 2003, con Evra e Heinze portati a sbattere l’uno sull’altro come in una scena di un film di Bud Spencer.

Ognuno di questi momenti fu accompagnato da un’allegria naturale che rese quel Milan divertente in modo indimenticabile, ma anche insopportabile agli occhi di chi intende il calcio come un fenomeno sociale da vivere con la bava alla bocca, dove l’unica risata consentita è quella verde, frutto marcio del sarcasmo. Come la battuta da osteria di quel tale direttore sportivo – un certo Luciano Moggi – che ne salutò l’arrivo con le immortali parole: «E’ pericoloso esporre al pubblico un giocatore con un nome così. E se poi gioca male?». E tutti risero.

Kaká ha militato nel Milan per otto stagioni complessive, dal 2003 al 2009 e poi nel 2013/14: il suo score complessivo è di 104 gol in 307 presenze, con sei trofei vinti e un Pallone d’Oro, conquistato nel 2007 (Andrew Yates/AFP via Getty Images)

E rise anche Kakà, dall’inizio alla fine, incurante dei tentativi di umorismo da Bagaglino di dirigenti attesi a futura radiazione e dello snobismo dei fantacalcisti di tutta Italia malgrado fosse pur sempre un campione del mondo in carica: aveva giocato ventidue minuti (numero profetico) con il Brasile ai Mondiali 2002, contro il Costarica, quand’era entrato al posto di Rivaldo (sostituzione profetica). In fondo, in un mondo ancora senza Youtube, era anche normale. Immaginate di organizzare la festa più grande della vostra vita e perciò di godervela fino in fondo, com’è giusto che sia, senza badare alle conseguenze alcoliche dei giorni successivi. Un evento del genere sarebbe il contesto ideale per affrontare con spensieratezza e lingua sciolta l’incontro che potrebbe cambiarvi la vita: invece nel caso di Kakà quell’incontro avviene nel momento peggiore, letteralmente il giorno dopo, nell’estate 2003 che tutti i milanisti e il Milan stesso stanno trascorrendo a smaltire il faticoso hang-over post Manchester. Un timing discutibile. Benedetto ragazzo con gli occhialini, qui siamo appena diventati campioni d’Europa battendo l’Inter in semifinale e la Juve in finale: qualunque cosa tu abbia in mente, noi l’abbiamo già superata. Nelle stanze del palazzo sui cui muri rimbombavano ancora, sfrenati e solenni, gli inni sacri del giorno prima, a Kakà non rimaneva che aprire le finestre e cambiare il 45 giri sul giradischi.

Oggi compie quarant’anni ma il sorrisone disneyano di sempre non è invecchiato, e nemmeno i pensieri: tutte le volte che torna a Milano, ogni seggiolino di San Siro si trasforma nel tasto “play” che fa ripartire il “Siam venuti fin qua” urlato per anni dalla Curva Sud sull’aria del ragtime di Scott Joplin per La Stangata. Il ragtime, che illuminazione. Musica jazz, allegra e sensuale, improvvisata e imprevedibile, ritmata e scatenata, inventata nelle più sordide balere di New Orleans, che ti fa pensare che davvero andrà tutto bene. Così finisce, se finisce, l’eterna commedia romantica tra Kakà e il Milan: con la pellicola che sfuma a nero e l’immagine che si chiude a cerchio sulla sua faccia sorridente, gli indici puntati verso il cielo, mentre corre al galoppo verso la prossima avventura.