Il fatto che Marcelo Brozovic abbia segnato i due gol potenzialmente più importanti della stagione dell’Inter, per di più in due partite consecutive, è un dettaglio del tutto marginale nel momento in cui si deve valutare l’importanza del croato nella squadra nerazzurra. La sua squadra, in un’accezione del senso di possesso che è praticamente assoluta, e che si determina nel modo più elementare e significativo possibile: misurando i risultati ottenuti dall’Inter con e senza di lui. Un riepilogo veloce: Brozovic, quest’anno, è stato assente in quattro partite. L’unica vittoria dei nerazzurri è arrivata contro l’Empoli, ai supplementari di un dimenticabile ottavo di finale di Coppa Italia; nelle altre tre gare, sono arrivati due pareggi – contro Torino e Fiorentina – e una sconfitta, la peggiore dell’anno: quella incassata in casa contro il Sassuolo.
Perciò descrivere Brozovic partendo da un qualcosa di così vistoso come la rete del 2-0 alla Roma è un ovvio controsenso, soprattutto in considerazione del fatto che la sua centralità nell’Inter – di Simone Inzaghi, ma non solo – è legata a delle qualità che non si traslano per forza in una giocata rilevante ai fini statistici, ma che alla fine risultano più importanti. Brozovic, insomma, è «un uomo da calcio vero e non da fantacalcio», come ha scritto Franco Vanni su Repubblica. Proprio la partita contro i giallorossi costituisce la rappresentazione plastica di questo concetto: negli highlights ci finisce lo splendido destro all’incrocio che chiude la partita già nel primo tempo – e che fa il paio con il sinistro di controbalzo della settimana scorsa contro lo Spezia – ma è tutto il resto, quello che non si vede e non viene ricordato nelle sintesi o nei tabellini, che permette all’Inter di mantenere un controllo pressoché totale nell’arco dei 90’, tra l’altro contro un avversario come la Roma, reduce da un eccellente momento di forma.
A un certo punto della stagione, la leadership tattica, tecnica e psicologica di Brozovic si è trasformata in un’autentica necessità – per non dire di una vera e propria dipendenza – da parte dell’Inter. E non si trova nei suoi numeri, o comunque non è solo nei suoi numeri, piuttosto nella percezione visiva, nelle sensazioni di chi la partita la guarda allo stadio o in televisione, nel modo in cui si muove la squadra quando lui è sul campo, in tutto ciò che accade – o non accade – per il solo fatto che lui si trovi lì, esattamente dove deve essere. Anni fa, parlando di Sergio Busquets, Vicente Del Bosque disse che «se si guarda una partita, Busquets quasi non si vede. Ma se si guarda Busquets si vede il calcio nella sua totalità». Ecco, Brozovic ovviamente non è Busquets, per background culturale e valore assoluto, ma è ugualmente condizionante nella misura in cui da lui discende tutto ciò che fanno gli altri. E per questi altri si intendono i compagni ma anche gli avversari. Il regista croato ha infatti una capacità innata: costringe i calciatori intorno a sé a pensare a cosa può fare, e così finisce per cambiare il sistema degli avversari, spinge gli allenatori a sacrificare parte del proprio modello pur di provare a rallentare il suo incedere e il suo incidere, in un rapporto costi/benefici che si rivela comunque perdente perché Brozovic riesce a far progredire e a sviluppare un’azione pericolosa anche senza toccare il pallone, semplicemente orientando le linee di passaggio o tirando fuori posizione il suo diretto marcatore.
Nella finale di Supercoppa Italiana del 12 gennaio, per esempio, il 4-4-1-1 della Juventus di Massimiliano Allegri era stato strutturato in modo che l’uomo alle spalle della prima punta – Dejan Kulusevski – agisse più come “schermo” del croato che non da principale riferimento per lo sviluppo della manovra offensiva. Una scelta condivisa con molti altri allenatori della Serie A, fortemente opinabile dal punto di vista dell’efficacia e dell’opportunità, ma che dice molto sul modo in cui Brozovic viene percepito all’esterno dell’Inter, del fatto he sia il vero cuore pulsante della squadra nerazzurra, l’uomo da cui tutto passa, l’unico elemento davvero insostituibile nonostante Inzaghi abbia passato più di metà stagione a cercare di convincere e convincersi del contrario, prima di arrendersi anche lui all’evidenza dei fatti. «Sappiamo dell’importanza di Brozovic nel nostro gioco, però penso che dall’inizio dell’anno abbiamo avuto altre assenze importanti», disse il tecnico nerazzurro proprio prima di Inter-Sassuolo 0-2, sconfitta arrivata al culmine di un febbraio terribile da due punti in quattro partite. «Quando è mancato Brozovic ho utilizzato al suo posto calciatori con caratteristiche da mezzala, non abbiamo in rosa un suo vice ma ho parlato con la società e lo prenderemo nel prossimo mercato», ha ammesso Inzaghi più recentemente, dopo che il rientro in pianta stabile del suo regista titolare è coinciso con le quattro vittorie consecutive che hanno restituito ai nerazzurri il ruolo di favoriti allo scudetto.
In particolare nella trasferta dell’Allianz Stadium contro la Juventus, vero momento di svolta di un’annata che sembrava essersi arenata nel secondo tempo da incubo del derby del 5 febbraio, Brozovic è stato nettamente il migliore in campo, il leader emotivo di un’Inter che si è trovata ad impostare una gara prettamente difensiva. In un contesto del genere, la sua lucidità in fase non possesso è stata fondamentale: in totale ha accumulato sette contrasti vincenti, un pallone intercettato, un tiro respinto e due recuperi difensivi. Il tutto dopo tre settimane di assenza per l’infortunio al polpaccio, per di più in casa di una Juventus mai così brillante e propositiva in questo primo scorcio di 2022.
La crescita e i miglioramenti individuali di Brozovic sono andati di pari passo con quelli strutturali e collettivi dell’Inter, quasi come se l’ex Dinamo Zagabria rappresentasse il ponte tra due mondi, l’anello di congiunzione tra due epoche in cui il momento di svolta è coinciso con la scelta di Luciano Spalletti di utilizzarlo come vertice basso del triangolo di centrocampo. Un’intuizione ancor più rilevante, se pensiamo che Brozovic ha vissuto le prime stagioni all’Inter come giocatore praticamente incollocabile, il suo ruolo in campo era un equivoco enorme all’interno di un gruppo perennemente in cerca di autore e identità: «Ci ho messo troppo a metterlo in quella posizione. Pensavo che mi avrebbe creato il vuoto davanti alla linea difensiva. Fa molti metri e recupera palloni importanti, gestendo la palla in maniera molto qualitativa», raccontò all’epoca l’attuale allenatore del Napoli. Al resto ci ha pensato Antonio Conte, che ne ha fatto la pietra angolare di una squadra in cui ogni singola situazione, soprattutto in quelle con palla in uscita e in fase di prima costruzione, era codificata, studiata, eseguita meccanicamente: «La cosa che conta è che Brozo prenda la palla dove io gli chiedo: lui è uno che ha energia e spesso è fin troppo generoso. Deve ottimizzare la corsa e farsi trovare nella posizione giusta per essere più efficiente. Comunque è migliorato tanto, ora è un giocatore molto più centrato, maturo e responsabilizzato rispetto al mio arrivo qui», disse Conte nel febbraio 2021, alla vigilia di un Inter-Lazio 3-1 in cui il croato mise il piede in due dei tre gol nerazzurri, nella vittoria che sancì il ribaltamento dei rapporti di forza con il Milan a una settimana dal derby poi brutalizzato da Lukaku e Hakimi.
Con Inzaghi lo switch è stato ancor più significativo, e si sta sostanziando nella miglior stagione della carriera. In un’Inter dall’anima ancor più diretta e verticale, Brozovic è diventato più autonomo nelle scelte, più attento nel posizionamento e nello smarcamento, più intuitivo nella comprensione e nella lettura anticipata delle singole situazioni di gioco, più consapevole del suo status: quello di miglior regista del campionato di Serie A, anzi quello di regista nel senso più puro del termine, cioè colui che dà un senso, un ritmo, una musicalità diversa all’azione della sua squadra, pienamente a suo agio sia sul lungo che sul corto. Il calcio di Brozovic è un calcio subdolo e di manipolazione, finalizzato all’individuazione e allo sfruttamento dei punti deboli degli avversari in fase di pressione, e per questo improntato alla “sperimentazione”, alla ricerca della soluzione ideale per tentativi: nei primi minuti di ogni partita non è raro vedergli variare costantemente la posizione di prima ricezione – abbassandosi sulla linea dei centrali in una sorta di rivisitazione della salida lavolpiana, allargandosi sulla sinistra per poi portare palla dentro il campo, offrendo al terzo centrale uno scarico comodo verso il centro – in relazione a ciò che gli viene opposto, per poi cambiare non appena intuisce che gli altri possano aver trovato una contromisura efficace; in fase di non possesso, la sua capacità di leggere e assorbire i tagli della mezzala che agisce sul suo lato, così come di selezionare tempi e momenti del pressing sul portatore di palla, gli consentono di correre meno ma di correre bene, coprendo porzioni di campo che un giocatore della sua dimensione fisica e aerobica non sarebbe in grado di coprire. Non si tratta di adeguarsi alla partita ma di determinarne i flussi, di dominarla senza esserne prima dominati.
Marcelo Brozovic è diventato – o forse è sempre stato – un centrocampista totale a modo suo e che sa di esserlo, un “uomo ovunque” la cui ubiquità e onnipotenza risultano lontane da quella di profili tecnicamente e fisicamente sovradimensionati alla Thiago, Kanté, Modric o De Bruyne, ma sono perfettamente aderenti all’immagine di cuore pulsante di una squadra. L’Inter, insomma, dipende da lui, si identifica con lui e gioca per per lui. «Non serve capirlo, Marcelo. Basta solo ammirarlo. Con Brozovic in campo l’Inter è tremendamente lineare, coerente con se stessa», è stato scritto domenica su La Gazzetta dello Sport. Dal gran gol alla Roma erano passate solo poche ore eppure sembrava che a nessuno importasse granché che Brozovic avesse anche segnato: perché di Brozovic ci si ricorda per tutto il resto, lo si nota per tutto il resto. La parte più importante.