Amare il Genoa è convivere con il culto della sconfitta

È da un secolo che il Grifone sembra condannato a dover rinunciare preventivamente a ogni sogno di gloria. Come si vive questa situazione un tifoso rossoblu?

I genovesi hanno una notoria propensione al far di conto, che in quel loro sottoinsieme daltonico, nelle cui rètine rosso e blu escludono qualsiasi altro colore, tocca punte di virtuosismo. Ma non è una scelta, bensì una coazione. Al termine della prima giornata – che quando la salute pubblica era sotto controllo ancora interrompeva le vacanze, e in genere si seguiva con un occhio solo dal tavolo di un bar o di una pizzeria – i tifosi della Juve come quelli del Benevento incassavano il primo pareggio di stagione con una scrollata di spalle, e in caso di rendimento troppo modesto si appellavano a quell’attenuante generica comunemente nota come calcio d’agosto. Quelli del Genoa, no: sfilavano un blocchetto Pigna dalla spesa appena fatta per il rientro a scuola dei pupi e cominciavano a calcolare quel singolo punto all’interno della complicata tabella verso il sogno dei 40, imprecando nel caso fosse inferiore ai tre preventivati, o esultando, anche selvaggiamente, quando nessuno l’avesse messo in conto.

Non so perché stia usando il passato. È un puro artificio retorico, o forse una conseguenza inevitabile della pausa estiva, quel breve periodo incantato che i miei simili e io trascorriamo nel nostro angolo di multiverso preferito. Intendo, ad esempio, il mondo parallelo del 1925, quando il Genoa, con nove scudetti sulle spalle lottava per il decimo, e intanto riceveva in casa, per un’amichevole fantasmagorica, il Nacional di Montevideo, all’epoca la squadra più forte al mondo: che al centro del suo tour europeo aveva messo proprio il match con quella che considerava, giustamente, la sua unica consorella. Da qualche mese, di quell’evento è stata riportata alla luce una lunga, sontuosa documentazione filmata. Hanno riso in parecchi, sui tre anni di lavoro che un benemerito archivista di Montevideo, Felipe Bellocq – indovinate con quali simpatie – ha dedicato al superbo restauro della pellicola.

Ma è un tipo di risata, stupida e volgare, cui siamo abituati. Accompagna ogni menzione dei nostri nove titoli, insieme all’inevitabile fesseria, bella forza, giocavate in quattro. È vero, giocavamo in quattro, ma contro gli altri tre – Milan, Juve e Andrea Doria – vincevamo quasi sempre. E sono vere un sacco di altre cose, fra l’altro: che essendo un Football Club fondato da inglesi e svizzeri, e non una Società Ginnastica più o meno di quartiere, abbiamo a lungo negato agli italiani il diritto di indossare la nostra beneamata maglia – che poi era, all’inizio, una camicia bianca; che parecchie vittorie decisive le abbiamo portate e casa in calzoni al ginocchio, scarpini alla caviglia e basco in testa, fra le risaie del vercellese e la puszta dell’alessandrino; che quando le tribune di legno di Ponte Carrega, dove avevamo cominciato, non ci bastavano più, ci siamo costruiti un imponente campo parallelo a quello dell’Andrea Doria, da quel momento in poi chiamato sempre e solo, giustamente, La Cajenna; che quando nel 1923 Argentina e Uruguay hanno deciso di invitare una squadra europea ad affrontare le loro ineguagliate Nazionali, hanno scelto noi.

Mi fermo solo per ragioni di spazio – e per un fastidioso prurito, che temo sia una manifestazione del principio di realtà. Per rimanere solo a quella gloriosa giornata del ’25, infatti, al momento della presentazione delle squadre un difensore uruguagio, Ramón Bucetta, aveva fatto in favore di obiettivi un bel “tre” con le dita: e dopo cinque minuti di partita eravamo sotto di due. Quanto al torneo di quell’anno, che avrebbe dovuto essere quello della stella, guardatevi su Wikipedia come è finito.

A poco a poco, un campionato dopo l’altro, i miei simili e io abbiamo assimilato un culto della sconfitta che credo trovi un equivalente solo nell’epica serba. Che però ha una sua temibile purezza, mentre il nostro ostenta una vistosa venatura sudamericana. Non nel senso della tradizione cui accennavo, però: in un altro, molto meno lusinghiero. Per anni abbiamo vissuto il nostro sideshow preferito, quello in cui a ogni sessione di calciomercato tutto veniva ribaltato più e più volte. Forse ora le cose stanno cambiando, ma è stato uno spettacolo al tempo stesso esilarante e incommentabile. Anche se a pensarci bene un commento ci sarebbe: lo aveva scritto anni fa un tifoso più spiritoso degli altri su uno striscione artigianale esposto durante l’ultima giornata del campionato di C, quello che ci avevano regalato col noto numero della valigetta. Sul lenzuolo bianco si leggeva infatti, in rosso e blu, l’auspicio più fervido e anche più futile del nostro inconscio collettivo: Anemmu via / da sto belin de categoria. Devo tradurre?

Da Undici n° 34
Foto di Mattia Balsamini