Quando ho finito di scrivere la prima versione di questo pezzo, Mino Raiola era già morto una volta. Da quel poco che so di lui, sono certo che si sarebbe divertito a osservare quel che è successo nel pomeriggio di giovedì scorso: smentite tardive, aggiornamenti frettolosi, homepage ferme nell’attesa di novità. Mi immagino Raiola come Tom Sawyer e Huck Finn, appollaiato nella galleria della chiesa in cui si sta svolgendo il suo stesso funerale, che si diverte a osservare l’improvvisa e ipocrita e obbligata contrizione di tutti. Mi chiedo se gli sarà tornata in mente la frase di suo padre, quella che usava sempre per spiegare il suo punto di vista sul mondo: «Metà della gente che incontrerai nella tua vita ti vorrà bene e l’altra metà ti vorrà male». Magari si sarà stupito del fatto che entrambe queste metà non hanno potuto fare a meno di parlare di lui nel giorno della sua prima morte. Forse avrà fatto ciò che faceva sempre ogni volta che gli si riportava l’opinione di questo o di quello: pausa, spallucce e un convinto «non me ne frega un cazzo».
Mino Raiola non ha mai preparato una pizza in vita sua, ma non si è mai preoccupato di correggere chi lo chiamava pizzaiolo (il primo fu Sinisa Mihajlovic, alla fine di quel Derby d’Italia che fu l’inizio dell’amicizia con Ibrahimovic celebrata poi sul palco dell’Ariston, durante un Festival di Sanremo). In pizzeria aveva imparato tutto quello che gli è servito nel resto della sua vita: fare i conti, gestire un magazzino, trattare con i fornitori, accontentare i clienti, guadagnarsi la mancia. Gli piaceva servire il vino ai tavoli, e anche in questo c’entra una lezione paterna. Sospettoso per carattere, il giovane Mino diffidava sempre dei clienti che sembravano poveri ma che ordinavano bottiglie costose. Suo padre allora interveniva e gli diceva di mescere sempre e comunque, perché la ricchezza non sta nelle apparenze.
Anche quando Raiola divenne il super agente, uno dei più ricchi e noti (magari non il più ricco, sicuramente il più noto) professionisti del suo settore, con un’azienda dal fatturato di diversi milioni e sede legale a Monte Carlo, non dimenticò mai la lezione del vino. Nelle sue non frequentissime apparizioni in pubblico, aveva sempre l’aspetto dimesso che viene scambiato per cattivo gusto. Il pezzente arricchito che ancora non ha imparato a vestirsi come il ruolo pretende, il ragazzo di periferia che non saprà mai orientarsi tra le boutique del centro: questo e altro si è detto del “pizzaiolo”. Ma nella curva banale dello scollo a V delle T-shirt, nelle stropicciature dei pantaloncini estivi, nella sporcizia delle sneaker usurate, c’era un senso che dall’esterno non si poteva cogliere. Dall’interno, però, era tutto chiaro.
Il giorno in cui Raiola conobbe Ibrahimovic, l’allora centravanti dell’Ajax capì tutto immediatamente. Lui si aspettava un agente di calciatori, e si era quindi preparato di conseguenza: Rolex d’oro, giacca Gucci, Porsche lucidata. Raiola si presenta leggermente in ritardo, addosso una tuta, si siede, osserva il sushi bar attorno a lui e ordina un piatto di pasta. Ibrahimovic lo guarda e, come scriverà poi nella sua autobiografia, si chiede chi sia questo panzone italo-olandese che sarebbe stato benissimo tra le comparse in un episodio dei Soprano. Raiola poi prosegue spiegando all’allora Zlatan tutte le ragioni per le quali è un attaccante «di merda»: segna pochissimo, cifre imbarazzanti rispetto a Vieri, Shevchenko, Trezeguet, Inzaghi. «Se segnassi tanto, pure mia madre riuscirebbe a vendermi», gli dice Zlatan. Raiola ci pensa un attimo e risponde che non importa, con quei numeri una squadra come la Juventus non spenderà nemmeno un soldo per uno spilungone svedese mezzo bosniaco e mezzo croato appena uscito dal settore giovanile dell’Ajax. Ed è a questo punto che Raiola tramanda a Ibrahimovic la lezione del vino: cura meno il look, impegnati di più sul lavoro, lascia perdere quello che può pensare di te il cameriere di una pizzeria. Zlatan si offende, mette il Rolex in cassaforte, ripone la giacca Gucci nell’armadio, lascia la Porsche in garage e comincia a usare una Fiat Stilo per l’unico spostamento della sua giornata: da casa al campo e dal campo a casa. In poco tempo diventa Ibrahimovic e Raiola lo porta alla Juve. I due non si separeranno mai e costruiranno la cosa più vicina a un’amicizia che si possano permettere delle persone legate da una transazione economica. Raiola definirà Ibrahimovic la sua Gioconda, Ibrahimovic lo chiamerà sempre Mino. C’è una persona che più di tutte può testimoniare sulla forza e sulla sincerità del rapporto tra i due: Pep Guardiola. Raiola non gli perdonerà mai l’anno orribile vissuto da Ibrahimovic a Barcellona: «Come allenatore è fantastico. Come persona è uno zero assoluto. Un codardo. Un cane», ha detto una volta. «Secondo me, Cruijff e Guardiola possono andare assieme al manicomio, stare zitti, sedersi e giocare a carte. Farebbero al calcio e al Barcellona un gran favore», aggiungerà in un’altra occasione.
Per molti Raiola è stato l’esemplificazione di tutto quello che non va nel cosiddetto calcio moderno: il potere smisurato di parti terze che nulla hanno a che fare con il campo, l’indifferenza beffarda di fronte agli impegni presi e alle firme apposte, l’avarizia smisurata che ha gonfiato una bolla che chissà che distruzione lascerà al momento dello scoppio. Lui, per tutta risposta, si premurava di dare ragione ai critici con investimenti che sembravano vere e proprie prese per il culo: otto milioni per la villa di Miami che fu di Al Capone, per esempio. Ma in realtà, almeno in parte Raiola sarebbe d’accordo con una parte di quel disprezzo: all’inizio della sua carriera nemmeno voleva definirsi “procuratore” perché considerava la categoria una collezione di delinquenti e parassiti. Quando portò Brian Roy – all’epoca next big thing del calcio olandese – al Foggia, Raiola andava in giro a dire che lui non era l’agente del ragazzo ma il suo interprete. Certo è che, prima della firma, non disse mai a Roy che il Foggia era solito allenarsi su quello che non poteva nemmeno definirsi campo: striscia di terra battuta, al massimo. Quando Roy arrivò a Foggia non poteva crederci. Per farsi perdonare, nei mesi successivi Raiola si trasferì in Puglia, gli fece da autista e gli verniciò le pareti di casa. In parte per scusarsi, in parte per generosità, in parte perché non aveva scelta: portando Roy in Italia Raiola aveva bruciato i ponti con la Federazione olandese, che fino a quel momento avevo “imposto” i prezzi dei cartellini secondo un sistema di valutazione definito più volte «una stronzata» dallo stesso Raiola (che non ha mai avuto un gran rapporto con i governi nazionali e internazionali del calcio: indimenticabile l’uscita con la quale definì Sepp Blatter «un dittatore comunista tipo quello della Corea del Nord», paragonandosi, per contrasto, alla Corea del Sud). Un sistema secondo il quale il Foggia avrebbe dovuto spendere quattro miliardi per Roy. Raiola rinunciò a una parte delle commissioni e chiuse l’affare per due miliardi.
Negli anni, con i soldi, con il successo, con i riconoscimenti, l’opinione di Raiola sulla categoria alla quale finì per appartenere cambiò. Ma mai in senso autocelebrativo né autoassolutorio: ripeteva spesso che se fosse dipeso da lui il calciomercato sarebbe durato o tutto l’anno o solo le prime due settimane di luglio, perché a lui di certo non interessava fare da passatempo estivo a gente che non sa stare senza pallone. Raiola capì, prima e meglio di altri, che presto i calciatori sarebbero diventati più che atleti e il calcio più che uno sport. Si sarebbero aperti vuoti che qualcuno avrebbe dovuto riempire, sarebbero emerse necessità che qualcuno avrebbe dovuto curare. Il modo in cui parlava del suo lavoro mi ha sempre fatto pensare a una leggendaria pagina del fumetto supereroistico che nella sua prima vignetta diceva: «Sono il migliore in quello che faccio. Ma quello che faccio non è sempre piacevole».
Tra le poche interviste in cui parla seriamente del suo lavoro, ce n’è una concessa a The Athletic in cui si spiega con una lucidità e un’onestà che fanno capire tutto del personaggio (e della sua scaltrezza e del suo successo). In sostanza, dice Raiola, non sono io che sono bravo ma è il calcio che è bello. E siccome il calcio è bello dentro ci girano un sacco di soldi, quindi persino uno come me è riuscito a diventare ricco. «Sono sicuro che c’è un agente nel ciclismo che lavora quanto me e forse è bravo come me o persino più bravo di me. Ma il suo mondo, il mondo del suo sport, il suo settore, è più piccolo. Quello che guadagniamo noi è un riflesso dell’importanza della nostra industria e dei nostri clienti». È per questo che un uomo che non ha mai cercato riconoscimenti culturali di alcun tipo, quando parlava dei suoi calciatori si sforzava sempre di trovare il giusto accostamento con l’arte pittorica: Ibrahimovic la Monna Lisa, Donnarumma un Modigliani, etc. Perché il valore di un agente sta nel valore dei suoi calciatori, opere d’arte meritevoli della compagnia esclusiva di capolavori alla pari.
Raiola, in effetti, ha avuto molti assistiti ma mai moltissimi. Quasi tutti fortissimi, però. E ogni volta che qualcuno metteva in dubbio la straordinarietà della sua collezione, lui la prendeva come una diminuzione di sé. Quando Klopp ordinò a Balotelli di allenarsi da solo, Raiola non esitò a definire l’allenatore del Liverpool «un pezzo di merda». Una volta Paul Scholes si azzardò a mettere in dubbio le capacità di leadership di Paul Pogba: «Scholes non saprebbe riconoscere un leader nemmeno se si ritrovasse davanti sir Winston Churchill». Nella parte rossa di Manchester, più odiati di Raiola ci sono soltanto i Glazer: da quando i Football Leaks svelarono l’assurda commissione incassata grazie al passaggio di Pogba dalla Juve allo United, Raiola deve girare per Manchester con cappuccio tirato in testa e occhiali da sole sugli occhi. «Ci sono solo un paio di procuratori che detesto. Uno di questi è Raiola», scriverà sir Alex Ferguson. «A Ferguson piace solo la gente che gli ubbidisce», risponderà Raiola.
Mino Raiola aveva un modo di difendere i “suoi” che solo gli aridi si spiegano con la preoccupazione per la commissione sul prossimo trasferimento. In queste ore, i messaggi dei “suoi” spiegano la cosa più semplice e allo stesso tempo più difficile da accettare per chi non fosse un cliente di Raiola: nel fare quello che faceva, era semplicemente «il migliore», come ha scritto Erling Haaland su Instagram. Solo che quello che faceva non era sempre piacevole.