Al di là dei discorsi sul suo talento sprecato a causa di scelte extracampo, discorsi che in un mondo ideale non avrebbero cittadinanza, Mario Balotelli, un attaccante per così dire calcisticamente egoista, verrà ricordato soprattutto per un assist. Dieci anni fa veniva servito al limite dell’area con un passaggio corto da un suo compagno di squadra, riusciva ad anticipare un difensore avversario con una zampata rapidissima, proteggeva il pallone con il fisico e poi lo riconsegnava allo stesso compagno che l’aveva servito, arrivato a trovarsi praticamente solo davanti alla porta avversaria, con un intelligente tocco in scivolata. Il compagno in questione era Sergio Agüero, e questo è il racconto del gol del 3-2 segnato dal Kun contro il Queens Park Rangers. Esatto: Mario Balotelli ha servito l’assist per il gol di “Agüeroooo”, il gol che ha permesso al Manchester City di vincere il titolo di Premier League 2011/12, probabilmente il gol più famoso e importante degli ultimi dieci anni di Premier League, segnato nei minuti di recupero dell’ultima giornata di campionato. Solo che nessuno, o quasi, se lo ricorda.
La natura del calcio, un gioco a basso punteggio e quindi volatile, episodico, lo rende un’industria produttrice di emozioni brevi eppure potentissime, indimenticabili. Pensiamo alla differenza, per esempio, col basket: praticamente tutti conoscono e ricordano The Shot o The Last Shot – i due tiri decisivi con cui Micheal Jordan ha iniziato a scolpire la sua grandezza (nel 1989, contro i Cleveland Cavaliers) e poi è entrato nella leggenda, nell’iperspazio (nel 1998, contro gli Utah Jazz) – eppure si tratta di casi isolati, nel senso che molte altre grandi vittorie di altri grandi cestisti non sono rimaste nell’immaginario collettivo per un gesto, per una giocata, per un tiro, una stoppata, un assist geniale. Magari non è proprio così, ma è evidente che il numero di certi momenti, nel basket, sia decisamente inferiore rispetto al calcio: senza uscire dal perimetro ristrettissimo delle finali di Champions League dal 1999 al 2009, ci sarebbero i graffi sottoporta di Solskjaer e Sheringham contro il Bayern nei minuti di recupero, la girata di Zidane contro il Bayer Leverkusen, il rigore di Shevchenko contro la Juve, tutti i gol di Istanbul 2005 e quelli di Pippo Inzaghi ad Atene 2007, lo scivolone di John Terry nel 2008, Leo Messi che segna di testa al Manchester United, l’apice della finale 2009 all’Olimpico di Roma. Ecco, tutti questi momenti hanno definito un grande successo e/o una mirabolante sconfitta, sono dei flash che tutti associano immediatamente a una partita. Anzi, è l’esatto contrario: quella partita è diventata quel momento, come se gli 89 minuti e 59 secondi intorno a quell’istante (che diventano oltre 120 minuti in caso di supplementari e ancora di più in caso rigori) non fossero mai esistiti.
Il gol di Agüero contro il QPR appartiene a pieno titolo a questo gruppo di momenti. Eppure ha – ed è – qualcosa in più. Per il carico emozionale che ha generato, certo: io non sono uno di quei tifosi del Manchester City che è uscito correndo per strada urlando come un ossesso, in preda alla commozione, né tantomeno un tifoso del Manchester United che non poteva credere ai propri occhi per quello che stava succedendo, eppure ricordo perfettamente dov’ero, cosa stavo facendo e cosa dissi mentre si compiva la rimonta del Manchester City; ricordo perfettamente la faccia arrossata – più arrossata del solito – di Alex Ferguson che mastica il suo chewing-gum e cambia solo un po’ espressione quando lui e i suoi giocatori vengono a sapere che il City ha vinto la sua partita, e che quindi loro hanno perso il titolo nazionale; ricordo perfettamente Mancini che incita i suoi giocatori a tornare a centrocampo dopo il pareggio di Dzeko al minuto 91′, la sua faccia disperata e poi, dopo il gol di Agüero, la sua corsa e l’abbraccio con David Platt e con un altro collaboratore che non ho mai riconosciuto; ricordo perfettamente Joe Hart che corre in cerchio con le braccia aperte, mentre sugli spalti dietro di lui, gli spalti di uno stadio che poi avrei visitato e che mi ha restituito la sensazione di un salotto annoiato, si scatenava un’estasi di delirio.
È arrivato il momento di rivederlo
Il gol di Agüero contro il QPR, però, va oltre tutto questo. Perché non ha definito solo un grande successo e/o una mirabolante sconfitta, che di per sé già basterebbe, ma ha definito un’era. Basta pensarci un attimo: quel titolo nazionale è stato il primo dal 1968 per il Manchester City, ma soprattutto è stato il primo di una proprietà araba nelle grandi leghe europee, visto che i qatarioti avrebbero iniziato a far grande il PSG solo nell’estate successiva; quel titolo nazionale ha invertito la storia dei Noisy Neighbours, vicini rumorosi, il nickname con cui quelli del Manchester United amavano definire quelli del City, appartenenti e tifosi di una squadra inferiore, al punto che Alex Ferguson deciderà di restare un altro anno, prima di ritirarsi, per lavare l’onta e riportare le cose al posto giusto: ci riuscirà, vincerà la Premier League 2012/13, eppure le cose si erano spostate in maniera irreversibile, visto che lo United non diventa campione d’Inghilterra proprio dal 2013, mentre il Manchester City ha conquistato altre quattro volte il titolo, e tra pochi giorni potrebbe riuscirci di nuovo. A fissare questo concetto, con un un articolo sul Guardian, ci ha pensato Jonathan Wilson: «Quel gol e quella partita sono stati lo spartiacque tra il City di ieri e il City di oggi».
Subito dopo il tocco in scivolata di Balotelli, Agüero potrebbe tirare e invece fa una finta. Così evita la scivolata dell’ultimo difensore avversario e si apre uno spazio ancora più ampio per tentare la conclusione in porta. Ogni volta che rivedo quel gol, penso sempre a quanto talento ci sia dentro e dietro quella micro-giocata, in quell’attesa: il talento talvolta è “soltanto” riuscire a essere perfettamente razionali in istanti così convulsi, è tenere a bada l’istinto del tiro, è contenere gli automatismi che scattarebbero in chiunque dopo un passaggio così invitante. È bellissimo pensare che tutto questo sia collegato, che la bravura di un essere umano dal fisico comune come Sergio Agüero abbia innescato questo domino di emozioni e di cose tangibili, di dinamiche economiche, forse anche politiche e sociali. Forse senza quel gol il destino del City – quello di diventare una squadra davvero vincente e non solo ricca, di assumere Guardiola, di prendersi il dominio sulla città di Manchester e sul calcio inglese, in attesa di prendersi anche la Champions League – si sarebbe compiuto, ma con un po’ di ritardo.
Ed è su questo che dobbiamo riflettere, oggi che sono passati dieci anni da quel momento, oggi che il Manchester City ha fatto uscire una maglia e un’intera gamma di prodotti griffati con i numeri 93 e 20, quelli del tempo del gol di Agüerooo: evidentemente anche gli sceicchi e i componenti della dirigenza sanno che il loro status attuale, la loro legacy, come si dice negli sport americani, si deve a quell’istante che ha cambiato tutto. E che pochissime altre squadre al mondo, forse nessuna, hanno potuto individuare il secondo preciso in cui la loro essenza è mutata per sempre, il momento che ha fatto la storia, che ha cancellato il passato e ha fatto iniziare il futuro.