Milioni di anni di spinte, trazioni e rotazioni. Centinaia di chilometri di pieghe, accavallamenti, aperture, intrusioni. Non avrà il fragore vulcanico delle Hawai’i, dell’Islanda o del Giappone, ma per chiunque abbia a cuore la geologia, l’Italia è un magnifico e continuo sussidiario. Ma a differenza di altri luoghi del mondo, qui in ogni valle remota, a ogni margine di bosco, sorge una casa, poi due, poi cinque, poi un paese. Nelle aree interne d’Italia, la vita del pianeta si intreccia più che mai con la vita del suo abitante più illustre. E questo non avviene solo sulle montagne. Il grande fiume ha scavato una pianura sconfinata, l’ha colmata coi suoi detriti e nutrita con le sue acque, fino a tappezzarne il piatto orizzonte di comunità agricole, casolari separati dalle risaie, campanili che si scorgono da chilometri di distanza. Ma il grande fiume si è anche svuotato, si è consegnato alla siccità, e le pianure si sono inclinate sempre di più, sottomettendosi all’avanzata di un mare che sale di livello e di una terra scavata sin nelle sue radici più intime, che si svuota come il pallone finito nelle mani del più dispettoso vicino del cortile. Le montagne si sono spopolate e sin dai loro piedi hanno cominciato a scivolare e sgretolarsi sotto l’azione della gravità. Il paesaggio a chiazze dei paesi, dei villaggi, delle comunità, ha seguito ancora una volta il destino del pianeta, che vive, e vivendo cambia. L’Italia interna è un collage di paesi piccoli, spesso minuscoli, talvolta ectoplasmici. Luoghi dove non arriva più nemmeno la corriera, figuriamoci la fibra. A unirli ogni giorno ci ha pensato EOLO, l’operatore nazionale di telecomunicazioni sponsor della Corsa Rosa, che porta la connessione internet dove gli altri non arrivano. E ogni primavera ci pensa anche una festa che attraversa le comunità e le inorgoglisce. Arriva ogni mese di maggio, dal 1909. È il Giro d’Italia.
Da qualche anno ho la faticosa fortuna di seguire – anzi anticipare – la Corsa Rosa attraverso l’Italia. Dai finestrini di un’automobile, dai cigli delle strade e soprattutto dai banconi dei bar, delle osterie, delle pizzerie e dei kebab, osservo srotolarsi chilometro dopo chilometro l’abbraccio tra un territorio che cambia e una popolazione che cambia. È un punto di vista parzialmente privilegiato per vedere la corsa, che si capirebbe molto meglio e più comodamente guardando la televisione, che sia sul proprio divano o nel chiacchiericcio delle sale stampa, ma è un osservatorio unico su come la gara sia solo una parte minuscola di questa vicenda. Il Giro è una cucitura, che seppur fugacemente riesce a connettere luoghi distanti, dimenticati, intermedi.
Qualche mese fa ho letto su una rivista un racconto di viaggio. Un ragazzo fresco di laurea, Nicola Amadini, aveva attraversato l’Italia in bicicletta, da Brescia a Catania, passando soltanto dai paesini della dorsale appenninica. Scriveva così: «Oggi è sempre più marcato lo squilibrio territoriale tra il centro in costante crescita e la periferia, più marginalizzata ed esposta giorno dopo giorno all’erosione della propria identità ed eterogeneità; componenti questi che danno ai territori delle aree più interne un connotato di specificità, di unicità». In bicicletta da solo, aveva visto ciò che vedono tutti i ciclisti del Giro. Per questi ultimi, però, il carattere unico dei paesi periferici emerge ingigantito dall’accoglienza in festa.
I comuni minori hanno nomi lunghissimi, come San Valentino in Abruzzo Citeriore, 34 lettere e record nazionale, 1851 abitanti scesi per strada ad applaudire il passaggio del Giro nell’edizione “fuori stagione” dell’ottobre 2020. Hanno nomi che sembrano uno scherzo della geografia, come Novara di Sicilia, 1171 abitanti sui Monti Peloritani, che lo stesso Giro autunnale lo incontrano con un clima appropriato, riparandosi sotto i balconi e le tettoie delle stradine che ad ogni carnevale ospitano il “torneo del Maiorchino” (a proposito di confusione geografica), dove a rotolare non sono le ruote delle biciclette ma le forme di formaggio. Hanno nomi poetici come Tramonti di Sopra e Tramonti di Sotto, comuni di 2-300 abitanti della Val Tramontina, Friuli-Venezia Giulia, immancabilmente separati dalla frazione Tramonti di Mezzo.
Frazioni di montagna, borghi sulle colline, villaggi dispersi nella Bassa, uniti dalla corsa. Che parte e arriva quasi sempre nelle grandi città, ma poi si snoda in geografie periferiche, annunciandosi con il suono delle pale dell’elicottero che si mischia al vociare degli altoparlanti dei furgoncini che vendono i gadget del Giro. Ad accoglierlo ci sono sempre la festa e i colori. Le scuole chiudono, per un giorno o per un’ora soltanto, e i bambini si dispongono ordinatamente a bordo strada. Le maestre hanno fatto preparare i cartelli pieni di incitamenti a pennarello, decorati con disegni di biciclette sempre sbagliate, perché nessuno è capace di disegnare correttamente una bicicletta (nonostante sia così semplice: sono due triangoli e mezzo). L’asfalto è colorato di scritte: dicono per chi fanno il tifo, sfoggiano giochi di parole e sussurrano dichiarazioni d’amore, per quelle ogni momento è buono. I negozi, se ancora ci sono, espongono in vetrina fotografie, biciclette, vecchie pagine ciclistiche della Gazzetta. I fiori non mancano mai, sarà che il Giro è di stagione. E non mancano mai le fasce tricolori di sindaci che spesso sono parenti o vicini di casa degli spettatori adiacenti. Per loro sono allestiti palchetti di legno, decorati con coccarde. Uno pensa che non esistano più le coccarde, e che anche se esistono davvero non si capisce a cosa servano. Servono a quello, a riempire i palchi delle autorità locali quando passa il Giro, sgomitando nello spazio con le coccarde monocolori, rosa. Sul palco c’è sempre anche L’Ex Corridore, tutto maiuscolo, gloria locale che talvolta ha vinto la gara col paese rivale ma tante volte ha vinto molto di più, in Italia o nel mondo. Perché il ciclismo che attraversa le province nasce dalle province. Luigi Ganna era di Iduno Olona, Alfredo Binda di Cittiglio, Learco Guerra di Bagnolo San Vito, Fausto Coppi di Castellania, Felice Gimondi di Sedrina. I grandi campioni arrivano nelle città per vincere, mai per nascita. È ancora così. Ma il più delle volte i ciclisti restano nelle frazioni, nei villaggi, e seminano. L’Ex Corridore in genere indossa la maglia della Società Ciclistica locale, che se va bene ha rimediato una sponsorizzazione da qualche piccola azienda del territorio, se va male è finanziata dalle collette, ma è ciò che permette al ciclismo di prorogarsi e vivere. Passa il Giro e i ragazzini sono entusiasti. Poi il Giro è passato e non tornerà per qualche anno, ma il Veloclub locale è ancora lì, a coltivare i sogni.
Ma gli striscioni e i cartelli a bordo strada dicono anche altro: denunciano la chiusura dell’ospedale, il decentramento della scuola, la mancata ricostruzione dei territori feriti da terremoti e frane, la soppressione della corriera e i lavori per la nuova autostrada o la ferrovia ad alta velocità, linee dritte tracciate in grassetto sul territorio, tra un grande centro e l’altro, relegando tutto ciò che c’è nel mezzo a spazio vuoto, di passaggio, da sfruttare. L’opposto del Giro d’Italia, nel quale ogni chilometro conta quanto il precedente, e il successivo. In un Paese in cui investimenti e infrastrutture sono polarizzati tra le grandi città e i luoghi del turismo, il Giro si muove come EOLO, che sta portando la connessione veloce nelle zone più remote. Il Giro è un racconto che connette, che unisce come una rete, nella quale ogni maglia è fondamentale. E per tenere insieme queste maglie, ha scelto la forma più antica del mondo: la festa.
Nel 1947, Indro Montanelli fu inviato dal Corriere al seguito del Giro d’Italia. Per Montanelli, che mai si era occupato di sport, era un’esperienza completamente nuova, un piano diverso da cui osservare e raccontare il paese liberatosi dal fascismo e sopravvissuto alla guerra. Nelle sue cronache si affacciano raramente i corridori e costantemente il popolo. Il 6 giugno, dopo undici tappe e tredici giorni di corsa, scrisse esausto: «Il Giro d’Italia ha uno strano potere, quello di trasformare in domenica ogni giorno della settimana. Da quell’ormai lontano sabato 24 maggio in cui prendemmo l’avvio da Milano, noi abbiamo dimenticato che esistono nel calendario i lunedì, i martedì, i mercoledì, eccetera, i giorni lavorativi, insomma, quelli in cui ci si alza secondo l’orario d’ufficio e s’indossano i panni della fatica e ci si affretta al negozio o all’officina, assorti in cure varie, punti dal timore di arrivare in ritardo. Il Giro non ha orario. A differenza di quelle dei Paesi protestanti, le domeniche dei Paesi cattolici odorano di vino, di brillantina e di peccato. Il loro potere di corruzione è irresistibile. (…) Questa è l’eterna domenica in cui viviamo e in cui facciamo vivere, che ci accoglie da quando siamo partiti. Una domenica che dura già quattordici giorni e ne durerà ancora altri otto. C’è da impazzire». Il 6 maggio è iniziato il Giro d’Italia numero 105, in ogni strada, in ogni paese, senza distinzioni, ci sarà da impazzire: sarà sempre domenica.