Una delle foto più iconiche di questa stagione calcistica rimarrà probabilmente il selfie scattato da Carlo Ancelotti con i suoi giocatori dopo aver vinto la Liga. Tra Vinícius, Militão, Alaba e Rodrygo, l’allenatore del Real Madrid porta degli occhiali da sole e un sigaro tra le labbra. Una posa che si vede spesso quando c’è da celebrare un trionfo sportivo, non solo calcistico. Quasi un mese dopo infatti, ancora prima di alzare lo scudetto con il suo Milan, Zlatan Ibrahimovic è uscito dagli spogliatoi di Reggio Emilia con una bottiglia di champagne in mano da spruzzare addosso ai tifosi rossoneri in estasi, e un sigaro in bocca. Un’uscita imitata anche da Pep Guardiola, che non solo si è concesso un sigaro sul prato dell’Etihad Stadium, ma anche durante il giro d’onore sul pullman scoperto che ha portato la Premier appena conquistata dal suo City per le vie di Manchester e in un video che lo ritrae in una nuvola di fumo mentre canta “Don’t look back in anger” degli Oasis.
Insomma, il sigaro è uno status, ancor prima che un bene di consumo. The Athletic lo dipinge come un vizio che ci si concede solamente in occasioni particolari, meglio se c’è qualcosa da festeggiare. Anche se non è chiaro quando la tradizione sia iniziata, sicuramente si sa chi l’ha resa leggendaria: Michael Jordan. I suoi sigari dopo i sei campionati vinti con i Chicago Bulls sono entrati non solo nella storia della Nba, ma nell’immaginario sportivo collettivo, amplificato dalla serie Netflix The Last Dance. «Chiunque giochi in Nba vuole emulare i più grandi» ha detto Channing Frye, giocatore dei Cleveland Cavaliers. «E l’immagine di Jordan con il sigaro in mano è iconica. Tutti abbiamo visto quelle foto e quei video di MJ con il sigaro della vittoria, non puoi fare a meno di pensarci». Michael Jordan ha vinto sei campionati con i Bulls, ma ciò non significa che abbia fumato solamente sei sigari. Qualche tempo fa, Jordan ha rivelato di fumarne a volte sei al giorno, incluso uno durante il viaggio per le partite casalinghe. «Il fatto che il più grande giocatore di tutti i tempi possa giocare a basket dopo aver fumato un sigaro è incredibile», ha dichiarato David Savona, direttore di Cigar Aficionado, «sono un fan dei Knicks da tutta la vita e immaginare Michael che distrugge la mia squadra dopo aver fumato una bella Hoyo de Monterrey Double Corona lo rende in qualche modo ancora più crudele».
L’influenza iconica di Jordan non si è limitata solamente alla Nba, ma ha abbracciato tutto lo sport americano. Quando Brett Keisel, ex giocatore del Pittsburgh, ha vinto il primo dei suoi due Super Bowl nel 2017, si è acceso un sigaro ripensando a lui, anche se giocava a football americano: «Sono cresciuto guardando Jordan fumare i suoi sigari dopo i titoli. Tutti volevano essere come Mike, giusto?». Un pensiero che sicuramente lo avrà accomunato a Stephen Curry, che lo stesso anno vinse la Nba con i Golden State Warriors e si accese un sigaro al centro del campo, dove fu ripreso dalle telecamere di Nba Tv. «Ho aspettato un anno intero per fumarlo», ha urlato Curry, «e ora mi godrò ogni singolo pezzo».
Ben prima di Jordan, l’abitudine di fumare un sigaro dopo una vittoria già apparteneva al basket americano, anche se confinato ad alcune realtà o particolari protagonisti. Probabilmente chi ha reso celebre, per primo, questo tipo di celebrazione è stato Jim Goostree, un preparatore atletico della squadra di basket collegiale di Alabama. Nel 1961, prima di una partita contro gli storici rivali di Tennessee, che Alabama non batteva dal 1954, Goostree promise alla squadra che avrebbe ballato negli spogliatoi in caso di vittoria. Così fu, e alla “danza” si aggiunse il sigaro, che i giocatori della squadra immediatamente imitarono. La tradizione andò avanti negli anni successivi, anche se Alabama decise di tenere segreta per timore di ripercussioni da parte della Ncaa. Nel 2005, l’abitudine è stata ufficialmente ripristinata in caso di vittoria, una “violazione” del codice Ncaa che però non viene mai sanzionata.
A un livello più alto, probabilmente la prima figura ad aver “esportato” in lungo e in largo questo tipo di celebrazione è stato Red Auerbach, leggendario coach dei Boston Celtics tra gli anni Cinquanta e Sessanta: per lui, accendersi un sigaro equivaleva a dire che la partita era finita, e che non c’era più nulla a potersi frapporre tra lui e la vittoria. Come ha spiegato lo stesso Auerbach, in una vecchia intervista a Cigar Aficionado: «Non mi piacciono quegli allenatori che, sopra di 25 punti a pochi minuti dal termine, continuano a urlare e sbracciarsi solo perché sono in tv. Per me, una situazione del genere voleva dire che la partita era finita. Che il lavoro era fatto. Preoccupati della prossima gara, piuttosto. Perciò mi accendevo un sigaro, mi sedevo in panchina e mi godevo il finale della partita».