Nel calcio di oggi si giocano troppe partite?

Secondo i calciatori e diversi studi sul tema, siamo ben oltre il limite. E il vero problema è che nei prossimi anni le gare da giocare aumenteranno ancora.

Una piccola raccolta di istantanee alternative dalla finale di Champions League: Fede Valverde che esce per crampi, Thiago Alcántara che non regge i 90 minuti, Kroos e Casemiro che limitano i movimenti al minimo indispensabile per conservare ogni goccia di sudore, Fabinho che si fa ammonire per un’insolita mancanza di tempismo, perfino Jürgen Klopp che al novantesimo, dopo aver perso, pare più stanco che deluso. Il Real Madrid aveva interesse a tenere il ritmo basso, il Liverpool non aveva l’energia per remare nella direzione opposta. Come ogni anno, le grandi squadre arrivano stremate a fine stagione, fiaccate da un calendario fitto e insostenibile. Lo aveva anticipato Fabinho in settimana: «Siamo molto stanchi perché abbiamo giocato tante partite ravvicinate, ci sentiamo affaticati fisicamente e mentalmente, e ora ci aspetta uno sprint finale davvero duro». Forse era parte della retorica prepartita, o uno di quei giochi psicologici che si fanno per non scoprire le carte, però a Parigi il Liverpool ha giocato la partita numero 63 della sua stagione; per il Real Madrid era la numero 56. Sarebbe stato strano vedere due squadre in buone condizioni, nella notte di Saint-Denis.

Gli impegni troppo ravvicinati nel calcio non sono più solo un tema economico e di spettacolo. È una partita che si gioca su quantità e frequenza: riempire ogni singola data del calendario ha conseguenze sulle prestazioni, sui corpi dei giocatori, quindi sulla qualità dello sport che vediamo dagli spalti e in televisione. Perché in campo ci vanno loro, i giocatori, e a queste condizioni non possono reggere, non possono avere performance atletiche brillanti. Rischiano infortuni, mettono in gioco una parte della loro carriera. Uno studio commissionato da FIFPro, il sindacato mondiale dei calciatori che rappresenta 65mila professionisti in tutto il mondo, raccomanda un numero massimo di 60 partite a stagione, assicurandosi un recupero di almeno cinque giorni tra un impegno e l’altro, con 14 giorni di riposo continuato nel periodo invernale, e dai 28 ai 42 giorni di riposo in estate, sempre limitando al minimo le trasferte lunghe. Nonostante le raccomandazioni siano così chiare, ogni anno questi limiti vengono scavalcati da un centinaio di calciatori. FIFPro ha creato anche una piattaforma di monitoraggio dei carichi di lavoro dei calciatori: quelli impegnati in Nazionale e nelle squadre presenti nelle coppe europee giocano il 73% delle loro partite senza un riposo adeguato, e quasi la metà va in campo con meno di tre giorni di distanza tra una partita e l’altra. Nella finale di Champions League, Sadio Mané e Mohamed Salah hanno giocato la 70esima partita del 2021/22; Virgil van Dijk, un loro compagno di squadra, ne ha fatte 62; se guardiamo in casa Real Madrid, Vinícius Júnior è arrivato a quota 60, Thibaut Courtois e Eder Militão si sono “fermati” a 58.

Non è solo un problema di corpi usurati, affaticati, esausti da mettere a maggese. Grégory Dupont, un passato da preparatore del Real Madrid e della Francia campione del Mondo nel 2018, dice che spesso si sottovaluta l’aspetto psicologico: «Se un giocatore si sente stanco il giorno prima della partita ha il 30% in più di possibilità di infortunarsi. E il giorno dopo la gara, il tendine del ginocchio perde dal 15 al 30% della sua forza, a seconda del fisico dell’atleta in questione: insomma, se non c’è recupero a livello muscolare il rischio di farsi male è molto alto». Dupont ha preso la parola durante un evento organizzato da FIFPro per presentare l’ultima indagine globale “At the limit”, titolo che non ha bisogno di traduzione. Dal report emerge che il 54% dei giocatori dichiara di aver subito un infortunio dovuto all’eccesso di sforzo, mentre l’82% dei preparatori atletici ha osservato problemi di salute mentale nei giocatori a causa del sovraccarico di lavoro.

Nell’epoca in cui il burnout è una vera e propria epidemia transnazionale che risparmia solo una piccola percentuale di lavoratori fortunati, anche i calciatori sentono il peso degli eccessi sul lavoro. L’estate scorsa Pedri chiudeva un ciclo di 73 partite in poco più di un anno solare tra Barcellona, Nazionale spagnola senior, Nazionale spangola Under-21 e Nazionale olimpica. Era stato elogiato come stacanovista, qualche simpaticone sui social l’ha fatto diventare un meme. Quest’anno ha saltato 33 partite per infortunio, 183 giorni in totale. È chiaro che non bisognerebbe scherzare sui numeri del ragazzino, piuttosto trattarlo per quello che è: una vittima di calendari calcistici che non hanno senso. «Abbiamo prove scientifiche e aneddotiche sul fatto giocare con meno di cinque giorni di riposo espone i giocatori a rischi maggiori, e che le prestazioni calano con il procedere della stagione. I calciatori non sono più in grado di sostenere questi ritmi, semplicemente», aveva detto qualche mese fa a The Athletic Darren Burgess, ex capo della parte atletica all’Arsenal tra il 2017 e il 2019.

L’evoluzione della tecnologia, gli studi scientifici applicati agli allenamenti e l’ampliamento degli staff tecnici hanno permesso un monitoraggio e un controllo senza precedenti delle condizioni fisiche dei calciatori. Ma non c’è un allenatore che abbia trovato la soluzione, tutti sanno che il carico di lavoro è esasperato eppure nessuno ha gli strumenti per evitare problemi. «Stanno uccidendo i calciatori», aveva detto Pep Guardiola poco più di un anno fa, uno di quelli che ha già cambiato il suo modo di allenare per rispettare i calendari e le esigenze di intensità della Premier League: rosa lunga, turnover massivo, pressing dosato per timing e comparti, fasi di gioco in controllo e “recupero attivo”.

Un problema – perché non c’è mai una sola causa – è che la Uefa negli ultimi anni è andata nella direzione opposta alle esigenze dei giocatori. Ha aumentato il numero di partite, creato nuove competizioni, inserito in calendario la Nations League, nel 2016 ha allargato gli Europei e adesso ha presentato una nuova Champions Legaue con più gare da giocare. La Fifa sta facendo lo stesso: i prossimi campionati saranno affettati da un Mondiale che per centinaia di giocatori significa fare una trasferta di oltre un mese in una terra dalle condizioni climatiche lontane dall’ottimale, a migliaia di chilometri da casa. Almeno Guardiola può esultare: il suo nuovo centravanti, Erling Haaland, in Qatar non ci andrà. Magari sarà lui a fine stagione, riposato, a dargli la Champions che aspetta da oltre un decennio.

L’anno scorso Bruno Fernandes, secondo i dati Cies, ha disputato 81 partite complessive per 6.472 minuti complessivi di gioco (Jan Kruger/Getty Images)

Sabato sera Mané e Salah non hanno inciso sulla partita più importante della stagione. Hanno avuto un paio di occasioni a testa, li ha fermati un supereroe della Marvel travestito da Courtois, poi non hanno avuto la brillantezza per accelerare mezza volta in più dei difensori del Real. Le due stelle dei Reds hanno giocato 70 partite ciascuno, di cui almeno il 60% in quella che viene definita zona critica, vale a dire quando si collezionano due presenze di almeno 45 minuti a meno di cinque giorni di distanza – e secondo FIFPro l’esposizione a diversi minuti di gioco nella zona critica può avere un impatto negativo sulla salute, le prestazioni e la longevità della carriera di un giocatore.

Non è nemmeno solo una questione di minutaggio. Se Phileas Fogg è diventato il protagonista di un romanzo di Jules Verne facendo il giro del mondo – circa 42mila chilometri – in 80 giorni tra mille peripezie, Mané ne ha fatti 94mila nell’ultima stagione. Salah, da parte sua, si è “limitato” a percorrerne 86mila: il giro del mondo lo hanno fatto entrambi due volte, ci hanno messo più tempo ma è comunque sufficiente per dire che sono stati esposti a rischi che non meriterebbero. Quando giocano con la Nazionale brasiliana, Eder Militão e Vinícius Júnior del Real Madrid devono attraversare l’Atlantico ogni volta, così in questa stagione hanno fatto 128mila chilometri ciascuno, tre volte il giro del mondo. E ovviamente non è finita, perché il calendario calcistico non si ferma dopo la finale di Champions. In settimana c’è la Finalissima, Italia-Argentina per la Coppa dei Campioni Conmebol-Uefa 2022, in cui i campioni d’Europa sfidano i campioni del Sud America; poi ci saranno le partite della Nations League, altre partite di qualificazione ai Mondiali. E già nella prima metà di agosto ripartirà la giostra dei campionati.

Allora è utile riprendere l’appello più sentito, quello dalle parole più dure, quello che più di tutti somiglia alla denuncia di cui il calcio ha bisogno: «La fatica accumulata ci mette a rischio», ha detto Arturo Vidal giovedì scorso, parlando a nome dei calciatori. «Perché può ridurre le prestazioni e accorciare le carriere. È anche una questione di salute mentale, noi giocatori dobbiamo essere in grado di lottare per il nostro bene, per le famiglie, per lo spettacolo. Il calcio è una festa di tutti, non un mercato degli schiavi». E chi crede che gli stipendi dei giocatori professionisti bastino a giustificare tutto questo, e tutto quello che verrà, forse non ha capito bene la portata, l’importanza, l’impatto enorme che potrebbe avere questa overdose di partite sul futuro del calcio.