Pato ha raccontato cosa non ha funzionato nella sua carriera, su The Players’ Tribune

Il Milan, le aspettative intorno a lui, i guai fisici e la necessità di tornare a divertirsi in campo.

Alexandre Pato è stato uno dei calciatori che più si associano al concetto di rimpianto: arrivato al Milan da giovanissimo, quando aveva appena 17 anni, non ha rispettato le aspettative che c’erano attorno a lui. Complice una lunga sequela di infortuni, l’avventura di Pato in rossonero è diventata sempre più accidentata, con l’ultimo anno e mezzo passato praticamente in infermeria. Anche in seguito, l’attaccante brasiliano non è riuscito a rimettere in piedi la sua carriera come avrebbe voluto, con le esperienze europee di Chelsea e Villarreal andate decisamente peggio delle attese. Dopo esperienze in Brasile e Cina, Pato oggi gioca negli Stati Uniti con l’Orlando City.

Una lunga storia che Pato ha cercato di riassumere su The Players’ Tribuneil media americano che fa parlare direttamente i protagonisti dello sport. In questo racconto, l’ex milanista ha messo insieme tutti i pezzi fondamentali della sua vita: dagli esordi in Brasile, con le difficoltà finanziarie della famiglia, fino al suo arrivo in Italia, con le problematiche fisiche che lo hanno a lungo accompagnato. Di quel periodo, il brasiliano ricorda: «Amavo le attenzioni. Volevo che si parlasse di me. Ma sapete cosa è successo? Ho iniziato a sognare troppo. Nella mia testa avevo già il Pallone d’Oro in mano. Non potevo evitarlo. È davvero difficile non lasciarsi travolgere. Avevo sofferto tanto per arrivare lì. Quindi perché non godersela? Poi nel 2010 ho iniziato a essere infortunato tutto il tempo. Non avevo più fiducia nel mio corpo. Aveva paura di quello che la gente potesse dire di me. Andavo ad allenarmi pensando: non posso infortunarmi. Se mi infortunavo non lo dicevo a nessuno. Una volta mentre stavo recuperando da un problema muscolare ebbi una distorsione alla caviglia e continuai a giocare. Era gonfia come un pallone ma non volevo lasciare la squadra».

Di quegli anni, Pato ricorda la mancanza di uno staff – al di là di quello del Milan – che lo seguisse da vicino, con le difficoltà di recupero che ne derivavano e con quella sensazione di sentirsi isolato. «Sapete quanto ho lottato per provare a tornare? Ho girato il mondo. Ho visto ogni medico che valeva la pena vedere — e anche qualcuno in più. Un medico ad Atlanta mi ha messo a testa in giù mentre mi faceva girare su me stesso. Diagnosi? I miei riflessi non erano allineati con i miei muscoli. Un dottore in Germania mi ha iniettato del liquido in tutta la schiena — il giorno dopo camminavo per l’aeroporto di Monaco ingobbito dal dolore. Un medico mi ha infilato 20 aghi ogni mattina e ogni sera. Potrei continuare all’infinito. Stavo vedendo il dottore numero 6,7,8, … ognuno di loro diceva una cosa differente. Pensavo: cavolo, che cosa ho?».

Il ritorno in Brasile nel 2013, con la maglia del Corinthians, è stato per Pato un momento importante, perché il lavoro con Bruno Mazzotti, il fisioterapista di Ronaldo, gli ha permesso di recuperare una condizione fisica ottimale. Ma in campo le cose continuavano ad andare male: i tifosi brasiliani ce l’avevano con lui per un rigore a cucchiaio sbagliato in Coppa, al punto che Pato doveva girare scortato o in auto con vetri antiproiettile. Il suo ritorno in Europa è stato pure deludente, ma a un certo punto il brasiliano, racconta, ha dovuto cambiare completamente prospettiva di vita: «Ho iniziato a focalizzarmi sulla salute mentale e sulle relazioni. Sono andato da un terapista. Ho imparato a trovare la felicità nel lavoro duro. Continuavo a divertirmi, ma trattavo il calcio come un lavoro. Mi sono preso la responsabilità di ogni aspetto della mia carriera. Il bambino è maturato. Giocavo bene. Avevo capito che il calcio va ben oltre a quello che succede in campo ed è stato davvero gratificante».