Il calcio a Roma non è mai stato una cosa semplice

Le radio, i complotti contro le vittorie, l'amore debordante per i club e per la Nazionale, la difficoltà di essere Francesco Totti. Un estratto del libro Il cuore dentro alle scarpe, di Francesco Longo, edito da 66thand2nd.

Le radio parlano senza sosta della Roma e della Lazio. La litania si riversa nella città, innerva strade, vicoli, tangenziali. Il traffico è la serra ideale per la coltivazione di radio sportive. I tifosi telefonano per reclamare un rigore, accusano allenatori di sostituzioni scellerate, di aver lasciato in panchina il giocatore più adatto. Gli ascoltatori sono archivi di torti subiti, sanguinano ancora per sconfitte ingiuste. Si nutrono di retroscena sulle squadre – dispongono di più informazioni dei calciatori stessi e dei giornalisti sportivi –, prevedono con mesi di anticipo il calciomercato. Le radio a Roma sono «una voce presente e pervasiva, parte del paesaggio interiore dei tifosi» spiega Daniele Manusia nella sua biografia del centrocampista della Roma Daniele De Rossi. Questo chiacchiericcio crea «una storia parallela, inverificabile» e impossibile da confutare, ma «con più dettagli di quella ufficiale». Nelle stazioni dei taxi i motori sono spenti e le radio accusano, seminano dubbi, sgranano rosari di vendette. Durante le corse con i clienti, dallo specchietto retrovisore dondola un orso con la maglia della Roma, o un gagliardetto biancoceleste.

Il calcio alla radio è un commento infinito, pura dietrologia. È un criceto che si aggira per il Grande Raccordo Anulare, il tarlo che rosicchia la città. I punti di distacco in classifica tra Roma e Lazio sono il termometro dell’umore collettivo. Radio dedicate alle squadre di calcio trasmettono in molte città europee. Ma per quantità e fervore restano un fenomeno tipicamente romano: «Neppure a Barcellona, dove la squadra è un mito identitario; neppure a Londra, con più squadre a combattere per ogni titolo possibile e immaginabile; neppure a Milano o Liverpool, dove il calcio è storia e sentimento, esiste un fenomeno simile: nove radio e oltre trecentomila ascoltatori al giorno in cui non si parla, letteralmente, di altro. Perché? Perché solo a Roma?» (Antonio Preiti, Corriere della Sera, 2019). Le radio romaniste sono Roma Radio, Tele Radio Stereo, Centro Suono Sport, Rete Sport, quelle laziali Lazio Style Radio, Radio Incontro Olympia, RadioSei; e Radio-Radio, neutrale.

Per accedere alla mentalità romana, magari in viaggio tra l’aeroporto e la città, bisogna sintonizzarsi su queste radio per immergersi nella pretesa grandezza di Roma: l’ingiustizia di una città che meriterebbe la gloria di un tempo e di conseguenza la vittoria di coppe e scudetti. Racconta Antonio Preiti che la magnificenza dovrebbe tradursi in trofei: «Il sortilegio per cui la Roma non conquista la Champions, o almeno lo scudetto, entra in labirinti kafkiani: c’è sempre un’entità vicina o lontana, concreta o astratta che si muove contro, di cui non si ha la percezione dei confini e del suo fine ultimo, se non appunto d’impedire che il trionfo, suggerito dalla storia della città, s’avveri». Le prove di forza e coraggio sono più importanti di quelle politiche: «Il cuore pulsante della città non è il marmo del Senato, ma la sabbia del Colosseo» dice un personaggio del film Il gladiatore.

La prima radiocronaca italiana di una partita di calcio è Italia-Ungheria 4-3. Viene trasmessa alle ore 15 del 25 marzo 1928 dallo stadio del Partito Nazionale Fascista, nuovo nome dello stadio Nazionale nato nel 1911 lungo viale Tiziano, nel quartiere Flaminio, sotto la collina dei Parioli. «Mi sistemarono sul gradino più alto della tribuna coperta dello stadio in una specie di cabina e con un microfono appeso a un trespolo» racconta il giornalista Giuseppe Sabelli Fioretti. La narrazione calcistica nasce nell’ultimo anello dello stadio pensato da Marcello Piacentini. Da lì si diffonderà in tutti gli stadi d’Italia, con trasmissioni diventate di culto, capaci di inventare i termini con cui si parla ancora oggi di calcio, «rete» per dire «gol», «angolo» per dire «corner».

Quali luoghi visitare per ritrovare lo spirito del calcio? Lo stadio Nazionale inizialmente ha una pista per correre e per gare di ciclismo, è dedicato all’atletica leggera, e non ci si gioca mai a calcio, perché nel 1911 sono più importanti gli altri sport. Solo quando si trasforma in stadio del Partito Nazionale Fascista diventa il centro delle attività sportive e viene costruito un campo da calcio. Il 10 giugno 1934 la Nazionale italiana si scontra contro la Cecoslovacchia per la finale della Coppa del Mondo. È la seconda edizione della Coppa Rimet. I mondiali del 1934, con trentadue squadre partecipanti, sono il meglio del calcio nel mondo. Arrivano quattrocento giornalisti, l’Italia vuole mostrarsi come un paese efficiente e ospitale. E due treni speciali di tifosi. I cecoslovacchi si allenano a Croce, fuori Frascati, mentre gli italiani alloggiano in un albergo al Pincio e la mattina prima della finale si riposano a Ostia. Nel pomeriggio sono nella pineta di Castel Fusano e poi al Foro Mussolini per assistere all’incontro di tennis Italia-Svizzera per l’International Law Tennis Change, l’attuale Coppa Davis. Per la finale di calcio, lo stadio si riempie di cinquantamila spettatori. Il Duce si affaccia dal palco, è seduto accanto a Jules Rimet, alle principesse Maria Francesca e Mafalda di Savoia, figlie di Vittorio Emanuele III. L’arbitro svedese Ivan Eklind non ha mai negato la simpatia per Mussolini, si rivolge al Duce per il saluto romano e suona il fischio d’inizio. Nonostante l’estate sia appena cominciata, è una giornata caldissima, la temperatura supera i quaranta gradi. L’Italia pareggia a nove minuti dalla fine e solo al tempo supplementare Angelo Schiavio segna il gol della vittoria italiana.

Nei filmati d’epoca, un aereo sorvola lo stadio e il boato del pubblico esplode quando per la prima volta l’Italia diventa campione del mondo di calcio. «Per dare un’idea della doppia lettura di quel Mondiale di regime, i quotidiani italiani di lunedì 11 giugno diedero ampio risalto a un’intervista in cui Jules Rimet, presidente della Fifa, si compiaceva della competenza calcistica del Duce in tribuna al suo fianco. Mentre i giornali del resto del pianeta riferirono di un Rimet molto colpito dall’assoluta quanto sgradevole incompetenza di Mussolini», scrive Gigi Garanzini sulla Stampa, nel 2019. Il boato del 1934 tornerà quattro anni dopo, quando l’Italia vincerà in Francia, e tornerà la notte della vittoria del 1982.

La vittoria della Nazionale del 2006 ai mondiali in Germania paralizza Roma. Nella notte i festeggiamenti si trasformano in una guerriglia. Vengono feriti poliziotti e carabinieri, in via del Corso vengono distrutte vetrine di negozi, in piazza Campo de’ Fiori si scatena una battaglia con cariche della polizia, a Trastevere assaltano un autobus, altri mezzi di linea vengono attaccati a Centocelle e a Casal Palocco. Cassonetti in fiamme e aggressioni a viale Manzoni e a piazza Istria. Undici persone vengono arrestate. Il giorno dopo i giocatori tornano in Italia e si organizza una grande serata al Circo Massino. Si parla di un milione di persone. «Le bandiere sono ovunque in una delle zone più suggestive del mondo, la più adeguata per festeggiare un momento che passerà alla storia dello sport italiano», dice il telecronista. Dal palco, Carlo Verdone dice che per una sera non esistono i club ma solo una squadra, la Nazionale. Francesco Totti indossa un grande cappello con i colori della Roma. Una copia sgranata di questa festa torna dopo la vittoria degli Europei di calcio del 2020, giocati nel 2021. Ancora il pullman con i campioni, ancora la folla per le strade. I giocatori vengono ricevuti da Mattarella e da Draghi, ma la festa durante la pandemia genera tensioni e polemiche per giorni.

Totti comincia a giocare a calcio a cento metri da casa, alla scuola calcio Fortitudo, sotto consiglio del cugino Angelo. Allora abita a via Vetulonia, a Porta Metronia. A dieci anni passa alla Lodigiani, la terza squadra di Roma. Si sparge la voce che è un ragazzino forte. Nel 1989 Roma e Lazio lo vogliono a giocare con loro. Ma in una famiglia di romanisti è impossibile prendere un’altra strada. «La prima volta che ho visto il Trigoria per me era un sogno», vede Giannini durante gli allenamenti, il Principe. «In quel periodo andavo in curva con mio fratello, i cugini, gli amici, tutte le domeniche». Poi viene chiamato dalla Roma, la prima partita, il primo derby perso, il primo gol in serie A. Già a diciotto anni ha «la gente sotto casa, non potevo più andare a prendere un caffè, a giocare a flipper, non potevo più uscire». Gioca la prima partita con la Nazionale. «Vincere uno scudetto a Roma è come se ne vincessi dieci in un’altra parte d’Italia». Con il cugino fa una scommessa: se avessero vinto il campionato si sarebbero tatuati due gladiatori. «Io tanti posti di Roma non li conosco perché non posso stare un minuto a vedere un monumento e mezz’ora a firmare autografi, che mi godo?». Totti patisce di essere diventato «un monumento pure io». Il futuro? «Spero che prima che muoio un giorno non farò una foto o un autografo».

Un estratto del libro Il cuore dentro alle scarpedi Francesco Longo, edito da 66thand2nd