Le nuotatrici transgender non potranno più gareggiare in competizioni internazionali

Si tratta di uno dei provvedimenti restrittivi più duri di sempre, e ha già scatenato tantissime polemiche.

Domenica 19 giugno 2o22 la Federazione internazionale di nuoto (FINA) ha escluso le donne transgender dai massimi livelli delle competizioni internazionali. Un rapporto scientifico commissionato mesi fa dalla Federazione sembra aver rilevato come le donne trans conservino un vantaggio significativo a livello prestazionale rispetto alle colleghe, anche dopo aver ridotto i propri livelli di testosterone. Il 71% delle 156 Federazioni mondiali ha quindi votato per escludere dalle gare le donne transgender che non abbiano iniziato terapie per la transizione entro i 12 anni, o prima che si siano manifestate le fasi iniziali della pubertà, se precedenti a questa soglia temporale. In pratica, le atlete che hanno vissuto la pubertà maschile – completamente o in parte – avrebbero in ogni caso dei vantaggi rispetto alle loro avversarie cisgender, e quindi dovranno essere escluse dalle gare femminili. Per ovviare a questa situazione di impasse, l’intenzione delle Federazioni sarebbe quella di istituire una categoria “aperta” dedicata, appunto, alle atlete transgender. Ipotesi su cui si era già espressa in maniera negativa Lia Thomas, la prima nuotatrice transgender a vincere un titolo NCAA: «Se dicessero che puoi competere, ma non puoi segnare o sei in una corsia extra nove, è molto diverso nei confronti delle persone trans, perché non stai offrendo loro lo stesso livello di rispetto e opportunità di giocare e competere».

Lo scorso 16 marzo, la vittoria di Lia Thomas nella gara dei 500 stile libero al campionato di nuoto femminile NCAA ha rappresentato un vero e proprio crocevia per lo sport internazionale. Thomas, che competeva per l’Università della Pennsylvania, a fine gara dichiarò che «non avevo molte aspettative, ero solamente felice di essere qui e poter gareggiare al meglio che potevo». In molti, però, non erano così contenti per la sua vittoria. Sugli spalti della Georgia Tech, dove si teneva la gara, apparvero infatti diversi striscioni che recitavano frasi del tipo: «Salviamo gli sport femminili», e alcune manifestazioni del genere sono andate avanti anche nei giorni seguenti all’esterno della struttura. Il governatore della Florida, il repubblicano Ron DeSantis, disse di non riconoscere la vittoria di Thomas, e il suo Stato – insieme ad Alabama, Arkansas, Florida, Mississippi, Montana, Tennessee, Texas e West Virginia, e prima ancora l’avevano già fatto anche Iowa e South Dakota – emanò un decreto secondo cui donne e ragazze transgender non avrebbero più potuto partecipare a eventi sportivi coerenti con il loro nuovo genere nelle scuole e nei college statali. In seguito, al Congresso, il Partito Repubblicano ha presentato diversi progetti di legge per limitare la partecipazione degli atleti transgender a tutti i livelli dello sport, trovando una sponda nel presidente di World Athletics, la federazione internazionale di atletica leggera, Sebastian Coe: «Il genere non può prevalere sulla biologia. È un lusso che hanno altre organizzazioni, che non devono affrontare questi problemi a livello pratico. Senza regole precise, lo sport femminile rischia di scomparire».

Dopo mesi di silenzio, Lia Thomas era tornata a parlare: «Il più grande malinteso, credo, è legato al motivo per cui ho completato la mia transizione. La gente dirà: ‘Oh, l’ha fatto per avere un vantaggio, per poter vincere’. Ma io l’ho fatto soltanto per essere felice, per essere fedele a me stessa. Le donne trans che gareggiano negli sport femminili non minacciano gli sport femminili nel loro insieme, si tratta di una piccolissima minoranza. Le regole NCAA riguardanti le donne trans che gareggiano negli sport femminili esistono da più di 10 anni. E non abbiamo visto dominare nessuna massiccia ondata di donne trans». Il sostegno a Thomas è arrivato anche da alcune nuotatrici: «Come donna nello sport, so bene quali sono le vere minacce per lo sport femminile: abusi e molestie sessuali, retribuzione e risorse ineguali, mancanza di donne nella leadership. Le ragazze e le donne transgender non fanno parte di questa lista», ha detto Erica Sullivan, terza classificata dietro Thomas ed Emma Weyant nei 500 metri di marzo.

In questi anni, l’USA Swimming aveva stabilito che le atlete transgender potessero partecipare alle competizioni sportive dopo tre anni di terapia ormonale sostitutiva, in modo da abbassare il livello di testosterone nel sangue. Ora però è arrivato uno dei provvedimenti più duri mai adottati nel mondo dello sport, che ha scatenato inevitabilmente reazioni forti, da una parte e dall’altra. «Dobbiamo proteggere i diritti dei nostri atleti a competere, ma dobbiamo anche proteggere l’equità competitiva nei nostri eventi, in particolare la categoria femminile» ha dichiarato il presidente FINA, Husain al-Musallam. «Non posso dirvi quanto sono orgogliosa del mio sport, della FINA e del suo presidente», ha affermato l’ex nuotatrice britannica, Sharron Davies. «Il nuoto accoglierà sempre tutti, non importa come ti identifichi, ma l’equità resta la pietra angolare dello sport». Joanna Harper, consulente medica di diverse federazioni sportive, tra cui anche il Comitato Olimpico Internazionale (CIO), ha invece affermato che «questa sentenza della FINA è un vero peccato. Le donne trans non si impossesseranno degli sport femminili». Molti sono preoccupati che il nuovo regolamento, che per ora si applica soltanto alle competizioni internazionali di nuoto, dia il via a una serie di provvedimenti altrettanto restrittivi negli altri sport, anche a livelli più bassi, nelle scuole e nelle università, visto che il numero di giovani transgender negli Stati Uniti è quasi raddoppiato negli ultimi anni. «Si tratta di una politica incredibilmente discriminatoria che sta tentando di risolvere un problema che non esiste», è il pensiero di Alejandra Caraballo, istruttrice presso la Harvard Law School ed esperta di questioni transgender. Una linea condivisa anche da Anne Lieberman, direttrice delle politiche e dei programmi di Athlete Ally, un gruppo che sostiene i diritti degli atleti LGBTQ: «Si tratta di un regolamento non solo discriminatorio, ma anche dannoso e non scientifico, che in più non è attuabile senza violare gravemente la privacy e i diritti umani di qualsiasi atleta che cerca di competere nella categoria femminile». Le atlete sarebbero infatti costrette a presentare oltre dieci anni di cartelle cliniche ed esami del sangue.

Lo scorso novembre il CIO ha lasciato che le regole di ammissibilità venissero stilate dalle singole federazioni, ma ha anche dichiarato che «fino a quando le prove non determinano diversamente, gli atleti non dovrebbero essere considerati come beneficiari di un vantaggio competitivo ingiusto o sproporzionato a causa delle loro variazioni di sesso, aspetto fisico e/o stato transgender». gAnche la FIFA ha seguito questa linea, e infatti ha affermato che continuerà a consentire alle donne trans di competere, diversamente da quanto stabilito da parte della World Rugby, organismo di governo del rugby internazionale, che ha escluso le atlete transgender dalle competizioni nell’ottobre del 2020. Ora le atlete possono impugnare la sentenza presso la Corte Arbitrale dello Sport, che ha sede a Losanna, in Svizzera. Anche se la Corte negli scorsi anni ha più volte sostenuto i diritti delle federazioni sportive internazionali di stabilire regole sulla classificazione degli atleti in base ai loro livelli di testosterone.