I calciatori fanno bene ad allenarsi anche in vacanza?

I club non sempre sono d'accordo, anche perché spesso finiscono per esagerare.

Siamo a inizio luglio, vale a dire l’inizio dell’estate per la maggior parte di tutti noi. Ma non per i calciatori professionisti, che stanno per tornare ad allenarsi, a maggior ragione in questo 2o22 senza Mondiali o Europei estivi, a maggior ragione se pensiamo che l’inedita collocazione dei Mondiali nel calendario – in Qatar si giocherà dal 21 novembre al 18 dicembre prossimi – costringerà le squadre di Serie A, giusto per fare un esempio, a giocare sette partite a cavallo tra metà agosto e metà settembre. E per quelle impegnate nelle coppe europee, queste partite saranno addirittura nove. In virtù di tutto questo, ma anche di una professionalizzazione sempre più profonda, più seria, più accurata, in realtà le vacanze dei giocatori non sono delle vere e proprie vacanze: il conosciutissimo aneddoto per cui Javier Zanetti si allenava sulla spiaggia non deve rappresentare un riferimento assoluto, ma è evidente – anche guardando i profili ufficiali dei calciatori sui social network – che molti atleti contemporanei continuano a lavorare sul proprio fisico anche durante il periodo di ferie.

Quella che potrebbe sembrare una buona abitudine, un’attitudine positiva, finisce invece per rappresentare un pericolo. A dirlo, in questo resoconto di The Athletic, è Tony Strudwick, preparatore e capo-analista delle prestazioni al Manchester United durante gli ultimi anni dell’era Ferguson e poi fino al 2018: «I club contemporanei spendono milioni di euro per offrire la miglior preparazione possibile ai calciatori professionisti. Questi momenti, in cui possono essere guidati anche da istruttori non direttamente legati alle società, sono forse l’unica area della loro vita professionale in cui mancano responsabilità e una reale governance. E quindi non passerà molto tempo prima che un grande giocatore professionista subisca un grave infortunio lavorando al di fuori del perimetro disegnatogli intorno dalle società». Sempre secondo Strudwick, il vero problema riguarda la loro idea di auto-promozione sui social: «I giocatori cercano di veicolare un’immagine positiva attraverso i loro profili, e per questo finiscono per contattare dei personal trainer che, semplicemente, non li conoscono bene. Si tratta sicuramente di allenatori molto bravi, ma non hanno idea della reale situazione fisica dei calciatori. Di certo non possono averla come i preparatori e i medici che li seguono quotidianamente in tutto l’arco di una stagione sportiva».

Come per tantissime cose nella vita, il problema non sta a monte, nell’idea iniziale. Piuttosto si manifesta a valle, nel mettere in pratica questa idea. Nell’esagerazione. Alcuni grandi club, in effetti, esternalizzano il lavoro fisico che i loro calciatori devono svolgere in estate, ma a volte sono anche i procuratori a prendere in mano la situazione, e finiscono per spingere i loro assistiti ad andare oltre. Nel suo articolo, The Athletic scrive che «questo genere di pratica ha causato diversi infortuni nel corso della preparazione precampionato». Ed è ancora Strudwick a spiegare perché: «È tutto molto semplice: ogni stagione sportiva si divide in tre fasi, vale a dire pre-season, in-season e off-season. Nella fase di off-season, bisogna riposare e recuperare. Ci sono 42 settimane stagionali in cui poter lavorare sul fisico e, perché no, postare contenuti social in cui si evidenzia un atteggiamento positivo in questo senso. È anche una questione di rispetto: i club fanno tutto il possibile e spendono tantissimo per seguire i loro atleti da ogni punto di vista, e poi questi si allenano per un periodo da soli e senza seguire alcuna regola, al di là del fatto che si rivolgano o meno a dei personal trainer».

 

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E allora come dovrebbero svolgersi l’estate e il periodo di vacanza di un calciatore di primo livello? Se consideriamo quelli che possono godersi sei settimane di assoluta lontananza dal calcio, secondo Steve Barrett – ex membro dello staff di preparatori atletici dell’Hull City – l’ideale sarebbe «godersi due settimane di riposo assoluto, per poi costruire una base per proteggerti dagli infortuni. Per fare questo, bisogna che i calciatori abbiano delle linee guida, delle istruzioni con cui gestire bene l’aumento progressivo del carico di lavoro prima dell’inizio della preparazione precampionato, in modo che arrivino pronti a quel momento. Certo, controllare la loro vita privata è impossibile. E poi alcuni giocatori sono davvero dipendenti dall’esercizio fisico, altri sono guerrieri di Instagram che vogliono mostrare di essere sempre al lavoro. Alcune pratiche sono buone e consigliate, altre sono tutt’altro che vantaggiose. Un suggerimento sbagliato e una scelta avventata possono essere davvero dannose».

E allora l’unica cosa da fare è trovare un equilibrio tra lavoro interno ed esterno: i club devono accettare che controllare completamente la preparazione degli atleti sotto contratto è diventato impossibile, e non solo in estate, visto che anche durante la stagione alcuni calciatori hanno dei personal trainer con cui svolgono del lavoro supplementare; allo stesso modo, i giocatori devono riuscire a non esagerare, a coordinarsi con il loro club, a condividere informazioni e obiettivi. È l’unico modo per evitare che insorgano problemi inattesi ma evitabilissimi, è l’unica strada per continuare a lavorare su se stessi, anche nel periodo di ferie, però senza strafare.