Nel settembre 2016, al termine dell’estate che aveva visto Kevin Durant annunciare la sua firma con i Golden State Warriors con la celebre “My Next Chapter” su The Players’ Tribune, Shea Serrano pubblicò su The Ringer un divertissement in cui raccontava il passaggio dell’allora KD35 al lato oscuro delle superstar NBA attraverso l’aderenza a determinate caratteristiche. Vale a dire: tatuarsi i volti di 2Pac e Rick James, unirsi a una squadra che non poteva perdere – e che invece aveva appena perso delle Finals apparentemente già vinte – e diventare il naturale deuteragonista di un LeBron James che aveva appena riscattato l’intera città di Cleveland con un titolo atteso 52 anni. Tutti questi erano sembrati perciò dei passaggi obbligati per dismettere, nella percezione comune, i panni del bravo ragazzo che pagava questa sua assenza visiva di cattiveria anche sul campo, nei momenti decisivi dei playoff: «Kevin Durant è ora un villain a tutti gli effetti», scrisse Serrano, «e non vedo l’ora di scoprire com’è».
Il 1 luglio 2022, a nemmeno sei anni da quella free agency che aveva di fatto inaugurato l’era dei superteam, il New York Post ha pubblicato sulla copertina della sezione sportiva una foto a tutta pagina di Durant accompagnata da un titolo che ha certificato il successo di questa operazione antipatia portata avanti nel tempo: «Lo smilzo non ha un cuore». Immaginare Durant che sorride compiaciuto dopo aver letto che «chiede di andare via da Brooklyn dopo una sola serie di playoff vinta al prezzo di 119 milioni di dollari», magari mentre sorseggia un cocktail a bordo piscina nella sua villa da 15 milioni di dollari a Hidden Hills in California, in attesa di conoscere – anzi di scegliersi – quale sarà la sua prossima squadra, è un esercizio di stile che poggia su solide basi fattuali, su una realtà che supera di gran lunga qualsiasi fantasia. Dopo un’estate olimpica passata a indossare la maschera del Captain America che non ha problemi ad unirsi a Team USA nonostante fosse rientrato in pianta stabile dall’infortunio soltanto a fine aprile, nel dicembre 2021 rivela in un’intervista che, in un mondo in cui tutti hanno il loro supereroe preferito, a lui «piacciono molto di più i cattivi. Qualche giorno fa ho visto Venom – Let there be Carnage: ecco tra Venom e Carnage mi piace molto di più Carnage, vorrei essere lui».
Da questo punto di vista, quindi, aver chiesto ai Nets di essere scambiato nemmeno dieci mesi dopo la firma su un’estensione contrattuale da 198 milioni per i successivi quattro anni, e a poche ore dalla decisione di Kyrie Irving di sfruttare la player option del suo contratto per restare a Brooklyn, è perfettamente in linea con il personaggio, con il suo modo di stare in campo e al mondo, con il ruolo che ha deciso di interpretare e all’interno del quale si trova anche piuttosto bene. Perché non bisogna pensare solo alle bizze di una superstar scontenta, ma anche al suo background, al percorso, al fatto che Durant sia riuscito a diventare questo Durant, il giocatore che odia e ama essere odiato: odiato dai tifosi, dai compagni di squadra, dagli avversari, dai giornalisti, da chiunque, e che proprio per questo sa come e quando esercitare una supremazia in grado di spostare gli equilibri dell’intera lega, manipolando a piacimento i destini di squadre e città come un grande burattinaio che non deve chiedere niente a nessuno, meno che mai il permesso o l’approvazione per ciò che dice, che pensa e che fa.
Nell’ottobre 2021, sul canale YouTube Trice, è stato pubblicato questo video in cui gli ultimi cinque anni della carriera di Durant sono stati raccontati per momenti ed episodi chiave, in una successione temporale che richiamava l’arco narrativo che vede Anakin Skywalker diventare Darth Vader perché «la paura conduce all’ira, l’ira all’odio, l’odio conduce alla sofferenza». In questo senso è probabile che qualcosa nella testa di Durant sia definitivamente cambiato nella tarda primavera del 2016, quando l’eliminazione dei Thunder nelle finali della Western Conference, a una vittoria di distanza dalle Finals e dopo essere stati in vantaggio 3-1 nella serie contro i Golden State Warriors dei record, sembrò convincerlo di non essere abbastanza per riuscire a portare un titolo a una franchigia senza storia e tradizione – per di più marchiata dal peccato originale di essere nata dalle ceneri degli amatissimi e mai dimenticati Seattle Supersonics – e di aver bisogno di molto più aiuto per arrivare a un titolo che ne legittimasse legacy e grandezza.
E se unirsi a chi non era riuscito a battere era stata la scelta più facile, persino ovvia dal suo punto di vista, le conseguenze dell’aver accettato di diventare uno dei tanti nella squadra di Steph Curry e Klay Thompson gli sarebbero apparse chiare solo due anni e mezzo dopo. In un’insignificante – quantomeno in apparenza – partita di metà novembre contro i Clippers, si manifestò un evento che cambiò il destino di quei Warriors: il diverbio con Draymond Green a causa di un pallone non passato nell’ultima azione. In quel «vattene via! Non abbiamo bisogno di te, abbiamo vinto senza di te» del suo compagno di squadra si celava quel retropensiero che nemmeno due anelli e due titoli di MVP delle Finals consecutivi erano riusciti a scacciare via: e cioè che l’aver infranto la prima regola non scritta della superstar NBA, che impone che tra pari ci si sfidi e non ci si allei, fosse una macchia fin troppo evidente e incancellabile nella carriera di un giocatore generazionale – o aspirante tale.
Quella frase di Green, estrapolata dal contesto di un timeout concitato e nervoso all’interno di una partita che gli Warriors persero nonostante la tripla doppia (33 punti, 11 rimbalzi e 10 assist) del numero 35, costituisce la seconda e decisiva slidin’door di una storia in perenne divenire. All’inizio della sua avventura della Baia la principale preoccupazione di Durant era quella di non essere compreso fino in fondo nei motivi della sua scelta: «Mi ferisce profondamente sapere che così facendo deluderò tante persone», scrisse nella già citata lettera a The Players’ Tribune. Da quel momento in poi era come se le preoccupazioni dovessero diventare esclusivamente degli altri, accentuando ulteriormente la durezza della sua corazza di cinismo ed egoismo, aumentando la distanza comunicativa tra lui e l’intera fanbase NBA. Un rapporto, tra l’altro, già minato dallo scandalo scoppiato nell’ottobre del 2017, quando il giornalista Tim Cato scoprì alcuni burner account utilizzati da Durant per rispondere duramente agli attacchi social che doveva fronteggiare a cadenza pressoché quotidiana: «Ogni tanto mi spingo un po’ troppo oltre, ma questo è ciò che succede quando discuto di ciò che amo, ossia giocare a basket. Non rimpiango di aver risposto ai tifosi, ma sono pentito di aver usato il nome del mio allenatore e della mia vecchia squadra: è stato un atteggiamento infantile, un’idiozia per la quale chiedo scusa. Però non penso che smetterò di parlare e discutere con i tifosi sui social, perché è una cosa che mi diverte e che mi tiene in contatto con loro. Adesso voglio lasciarmi questa storia alle spalle e pensare soltanto a giocare» disse all’epoca KD, salvo poi smentirsi nell’agosto 2020 in una video-intervista a The Corp in cui rivelò di avere ancora un account fake a disposizione perché «quando lo cancellai la prima volta pensai che stavo rinunciando a una cosa che mi piace solo perché qualcuno me l’aveva chiesto fin quasi a impormelo. Così ne ho creato un altro».
Questa visione da “o con me o contro di me” è ciò che Durant ha utilizzato come motivazione per prendere la decisione di lasciare gli Warriors dopo le Finals 2019 e per riemergere più forte di prima dal limbo dell’infortunio al tendine d’Achille, ma è anche il risultato di un processo che ha determinato – e sta determinando – una condizione strana: quella per cui , il personaggio prevale sul giocatore. Nei mesi in cui i Nets e la NBA riscoprivano che la più completa e devastante arma offensiva della lega era rimasta tale, l’attenzione era sempre rivolta altrove, ai motivi per farsi odiare che Durant dava di volta in volta, al suo atteggiamento passivo-aggressivo nel rispondere alle domande dei giornalisti in conferenza stampa, al suo peso specifico all’interno di uno spogliatoio che si stava progressivamente sfaldando a causa delle bizze di Harden e degli atteggiamenti poco collaborativi di Irving per ciò che riguardava l’obbligo vaccinale per giocare le partite interne al Barclays Center. Persino il tweet con cui si è congratulato con gli Warriors tornati campioni non è stato altro che una risposta polemica a un tifoso che lo aveva provocato parlando di «legacy morta e sepolta» e di Durant come «uno dei tanti che sono passati tra Harrison Barnes ed Andrew Wiggins».
Insomma, Durant sta vivendo e incarnando l’esatto contrario del principio del let your game speak grazie al quale altri giocatori ritenuti poco comunicativi – come Kawhi Leonard, Trae Young e Luka Doncic – riescono comunque a legittimarsi nei confronti di chi non li apprezza. Per Durant questo sembra non essere più possibile nonostante il suo gioco abbia già parlato e stia continuando a parlare per lui, basti pensare alla serie da 34.7 punti, 9.3 rimbalzi e 4.7 assist di media contro i Milwaukee Bucks che si sarebbero poi laureati campioni, ai quasi 30 punti di media fatti registrare nei primi due mesi di regular season o ai 55 punti realizzati lo scorso 2 aprile contro gli Atlanta Hawks, nuovo massimo in carriera. Come se questa incomunicabilità di fondo, cercata, voluta e infine trovata, lo avesse già trascinato fino al punto di non ritorno per ciò che riguarda l’identificazione nel supercattivo di una lega che si regge da sempre sui giocatori, sulle rivalità, sull’immagine dei due pesi massimi al centro del quadrato, sull’idea che per ogni supereroe deve esserci sempre un antagonista che gli permetta di essere tale. Kevin Durant ha provato a morire da eroe ma poi ha scelto di vivere tanto a lungo da diventare il cattivo, arrivando persino a sacrificare parte della sua natura di campione pur di diventare quello che in pochi, oggi, vorrebbero e riuscirebbero a essere. In fondo serve coraggio e durezza mentale anche per sopportare tutto questo, almeno fino alla prossima richiesta di trade.