Cristiano Ronaldo doveva presentarsi a Carrington, per il primo giorno di raduno del Manchester United. Doveva stringere per la prima volta la mano a Erik ten Hag, il suo nuovo allenatore, e cominciare la sua ventiduesima stagione da calciatore professionista. Ma Ronaldo, a quell’appuntamento, non è mai arrivato. Ragioni familiari, questa la motivazione ufficiale, hanno ritardato il rendez-vous con i Red Devils. Ronaldo potrebbe non presentarsi mai: è chiara la sua volontà di cambiare aria, se non altro per poter continuare a giocare la sua competizione preferita, quella dove ha impilato record su record e a cui ha consegnato la sua gloria imperitura – la Champions League.
C’è un aspetto fondamentale in questa vicenda: che un calciatore della sua statura, seppur trentasettenne, sbatta i pugni sul tavolo per ambire a una società che gli consenta di giocare ai più alti livelli non è una stranezza né un inedito. La questione è un’altra: CR7 era tornato un anno fa dalle parti di Old Trafford per restituire al suo vecchio amore quella grandezza e quella dimensione smarrite e annacquate nel tempo. Ha preso una squadra che l’anno prima era finita al secondo posto in Premier, e l’ha lasciata al sesto. In Champions lo United è uscito mestamente agli ottavi dopo un doppio confronto tutt’altro che esaltante con l’Atlético. In questi risultati, più che le colpe di Ronaldo, che ha continuato a fare il lavoro per cui è lautamente pagato, segnare, pesa il contesto confusionario del club, rimarcato dall’avvicendamento in corsa in panchina tra Solskjaer e Rangnick.
Ronaldo segna 24 gol in 38 partite, in Champions fa 6 su 7 gare, più della metà di tutte le reti segnate dallo United. È l’unico faro di un gruppo sempre a un passo dallo sbandamento, la cosa più vicina a una preghiera che possa esistere in una squadra di calcio. Incarna ancora l’ideale di calciatore decisivo, ma il suo score personale finisce per essere il più basso dalla stagione 2006/07. I numeri però raccontano solo una parte, quella che vuole evidenziare Ronaldo stesso: la sfida con se stesso e con i propri limiti. Una sfida personalistica che finisce per mettere fuori fuoco tutto il resto: Ronaldo garantisce il proprio successo, non quello dello United. A Old Trafford il cortocircuito diventa lampante, estremo: Ronaldo rende peggiori le squadre in cui gioca?
CR7 è un investimento: lo prendi e ti promette la vittoria. Nessun altro giocatore ha sviluppato intorno a sé una narrazione del genere: quando, nel 2018, lascia il Real Madrid, permettendosi il lusso di lasciare il Real Madrid, è più grande del club stesso. Ha appena vinto tre Champions di fila, è la figura che, da solo, cambia le intere gerarchie del calcio europeo. Il suo sbarco alla Juventus ha tutte le sembianze di un arrivo messianico: è il giocatore che promette di cambiare l’intera dimensione di un club. Stesse premesse che poi lo hanno portato in un Manchester United in crisi di identità.
In questi quattro anni tra Juventus e Manchester United, CR7 ha segnato 125 gol in 172 partite, una media di 0,7 reti a match: non arriva ai livelli di Madrid, ma resta un rendimento mostruoso. Intorno a lui, però, regna l’entropia: Ronaldo calamita gol e attenzioni, mentre tutto il resto si smagnetizza. Succede a maggior ragione in contesti tattici nebulosi, come dimostra il fatto che nelle ultime quattro stagioni il portoghese si sia ritrovato con cinque allenatori diversi.
L’attualità di Ronaldo rischia così di scivolare in secondo piano – un giocatore troppo ingombrante che, al tempo stesso, esige il meglio per sé. Per Ronaldo le alternative restano due: trovare un club disposto a costruirgli la squadra intorno o scegliere un club che possa assorbire il suo peso specifico, in un contesto già rodato e affollato di campioni. Il primo caso assomiglia molto a quanto CR7 ha trovato alla Juventus, meno allo United: a ogni modo, il Ronaldo del 2022 è diverso dal Ronaldo del 2018, se non altro per una questione anagrafica – a 37 anni, un club che decida di sviluppargli intorno un progetto tecnico è utopia. Oltretutto, ancora più complicato se si tratta di trovare un punto di equilibrio con le ambizioni da Champions.
Il secondo caso comprende squadre come Psg, Chelsea, lo stesso Real Madrid: Ronaldo non arriverebbe come il salvatore della patria, ma come l’ennesimo diamante in una collezione di campioni già luccicante. Il Chelsea, al momento, sembra una destinazione probabile, ma soltanto se si ragiona per esclusione: bisogna trovare una squadra che abbia lo spazio per lui, tanto in termini economici che di campo. I Blues si sono appena liberati di Lukaku in attacco, e da ricchissimo club di Premier non avrebbero problemi a garantirgli lo stipendio da circa 25 milioni di euro l’anno. Oltretutto, la nuova proprietà potrebbe cogliere l’occasione per piazzare il primo colpo a sensazione.
Ma Ronaldo rischia anche di rimanere nel limbo dello United, con cui ha ancora un anno di contratto: un limbo che non è soltanto di squadra, ma è soprattutto personale, imprigionato tra una grandezza di cui è il custode più geloso e un calcio che nel tempo lo ha lasciato indietro. Per un calciatore mal disposto al compromesso, il compromesso sembra l’unica via: quella di accettare un ruolo da comprimario, o al contrario un ruolo importante ad ambizioni ridotte.