Il Mundial 82 e la sottile differenza tra memoria e nostalgia

Quarant'anni dopo quel trionfo, il ricordo di ciò che è stato rischia di essere banalizzato, riducendolo a un inutile esercizio di confronto col presente.

Il 1982 non passa. Quarant’anni dopo, il ricordo ha dominato la scena: interviste, aneddoti, vecchie prime pagine riesumate, speciali televisivi, podcast. Era già successo dieci anni fa, succederà ancora tra dieci anni per l’anniversario numero 50. Non c’è nulla di sbagliato, in assoluto. La memoria è un esercizio onorevole e piacevole. Gli eroi di quella stagione che possono tramandare sensazioni, clima, ambiente, suoni di quel mese spagnolo sono totem transgenerazionali: le loro parole affondano nella memoria di chi c’era e stuzzicano la curiosità di chi non c’era. Ci sono dati oggettivi che mettono il 1982 in posizione di dominio sul resto dei successi e dei ricordi legati al pallone. È stato il primo mondiale vinto dall’Italia contemporanea, il primo successo senza il marchio fascista, il primo trionfo dell’epoca della tv a colori per tutti o quasi. In qualche modo anche il primo di una globalizzazione ante-litteram. Poi c’è il campo: la fatica del primo pezzo di cammino, gli insulti della stampa e del pubblico, il pronostico di una uscita prematura con ignominia, poi la magia della seconda parte, con Argentina e Brasile, poi Polonia e infine la Germania Ovest. Nel campo dell’oggettività sta anche la figura di Paolo Rossi e poi quella di Bearzot.

Ma non basta questo. Non è mai bastato. L’82 è rimasto l’82 perché è stato anche l’abbrivio di qualcosa di più ampio: il nuovo decennio della spensieratezza dopo la cupezza degli anni di Piombo. Perché gli anni Ottanta dell’Italia sono cominciati l’11 luglio ‘82 fuori dai nostri confini, a Madrid appunto. E quel volo di rientro verso Roma ha portato la nuova era a casa. Coincidenze o no, ma l’esplosione del turismo di massa, dell’Italia vissuta come meta della bellezza, la nascita della grande epopea dello stile italiano con la moda milanese: è tutto a rimorchio di quell’estate. L’ottimismo di quel periodo ha condizionato anche negativamente il futuro, ma all’epoca non importava: troppo forte la necessità di superare gli anni Settanta e la coda del’80-81.

Poi c’è il lato soggettivo. Che è individuale, ma diventa collettivo. Ed è qui che la memoria lascia il campo alla nostalgia, concetto diverso, perché si passa dal piacere del ricordo, all’amarezza del confronto. E qui il 1982 diventa scomodo. La nostalgia della generazione di chi era bambino o ragazzino durante quella stagione è stata quella che negli anni successivi ha preso le leve di comando del Paese e dice: “Niente sarà più come allora”. Affondare i ricordi nell’epoca più felice della propria esistenza, ovvero quella della giovinezza, è un meccanismo naturale. Se capita che durante quel periodo arriva una Coppa del Mondo, allora nasce un incantesimo eterno. Anche per chi nostalgico non lo è, il ricordo di un momento felice individuale o collettivo, è un piacere. L’82 non era né meglio, né peggio: era diverso, per qualcuno unico. E ci starebbe se l’unicità arrivasse da chi quel successo l’ha ottenuto: la squadra, i giocatori, lo staff tecnico. Invece loro, i protagonisti, sono i più sobri, i più attenti, i più misurati.

Ad alimentare il confronto con tutto il resto affinché tutto il resto venga distrutto al paragone con il Mundial, sono gli “Ottantaduisti”: coevi dei calciatori di quella Nazionale che stanno esattamente nella fascia anagrafica di chi quel Mondiale l’ha vissuto nell’inizio della sua maturità umana e ne alimenta il ricordo con spregio di tutto ciò che c’è stato dopo. Sono i cultori della sacralità del 1982, dell’intoccabilità di quel momento. Vivono con disagio il ricordo degli altri, perché magari non è contaminato dall’apparato nostalgico, ma si ferma alla memoria. Ancor di più se gli altri non sono di quella generazione: non vi permettete di parlarne, perché chi non c’era non potrà mai capire. Forse capire no, ma interessarsi? Discutere? Capire? Così la rievocazione diventa nostalgia al quadrato, con la magia che si incrina, fino quasi a rompersi. Si sono letti articoli belli e significativi, in cui il ricordo personale ha valore, senso, significato. Perché “io c’ero” aggiunge qualcosa a chi invece non c’era. Prendiamoli, custodiamoli, tiriamoli fuori tra altri dieci anni e avranno ancora senso.

Poi ci sono quelli che avrebbero voluto viverla quell’epoca, ma l’hanno sfiorata per anagrafe o altro: non erano in Spagna, ma sognavano di esserlo. Si sono illusi di essere come quelli che c’erano. Hanno passato la vita a inseguire il sogno di poter vivere una cosa che non hanno vissuto. E vogliono l’esclusiva del ricordo. Così interviste ai protagonisti dell’epoca diventano cafonate autoreferenziali fatte pensando di aggiungere chissà quale notizia a fatti ampiamente narrati da quarant’anni. Sono quelli che sui social criticano con la malcelata rabbia di chi ha fatto palo fuori con i suoi desideri. Gli ottantadusti rovinano la memoria, ne banalizzano il significato pensando in realtà di innalzarlo. Passeranno, però. A differenza del 1982 e del suo ricordo.