Pep Guardiola non troverà mai la perfezione, ma non smette di cercarla

Una recensione di Pep Guardiola, il calcio come rivoluzione infinita, di Alfonso Fasano, edito da 66thand2nd.

Parlare di Pep Guardiola è come parlare nello stesso momento di una cosa e del suo contrario. È come se la contraddizione e la contraddittorietà fossero parte della sua natura, lo definissero più di tutti gli altri tratti che nel corso degli anni sono stati aggiunti al suo ritratto. Prima la sua carriera da calciatore e poi, soprattutto, quella da allenatore mostrano questa verità. È stato il giocatore ormai troppo lento per un calcio che cominciava ad andare troppo veloce, e questo gli ha imposto un modo nuovo di intendere i suoi compiti in campo. È stato – in parte è ancora, perché l’opera non è ancora compiuta e forse non lo sarà mai davvero – l’allenatore che ha messo assieme l’ossessione per il possesso palla di Johan Cruijff e le paranoie per lo spazio vuoto di Arrigo Sacchi. È l’allenatore che più di tutti i suoi contemporanei, forse anche dei suoi predecessori, ha cercato di risolvere la dicotomia che il calcio discute dall’alba del suo tempo: quella tra il fine da raggiungere e il mezzo per raggiungerlo, tra il risultato e il gioco.

Se per il filosofo l’etica è il discorso sul comportamento dell’uomo davanti al bene e al male, per l’allenatore esiste un discorso equivalente che riguarda il risultato e il gioco. Per tutta la sua carriera Guardiola ha cercato di riscrivere questo discorso, che in sostanza significa riscrivere l’etica del suo mondo. Un mondo piccolo ma nemmeno tanto, il più importante tra quelli che non sono importanti, come diceva uno degli allenatori che ha amato e studiato di più. Non è un caso che spesso Guardiola sia stato definito allenatore-filosofo, sia da un lato che dall’altro della dicotomia che ha cercato – e sta cercando, ancora e sempre – di risolvere. Lo considerano un filosofo i suoi ammiratori, cultori, fedeli. Lo considerano un filosofo anche i suoi oppositori, detrattori, odiatori: Ibrahimovic, che di questo secondo gruppo può essere considerato il presidente onorario, lo chiama così per ridicolizzarlo.

Una delle cose che ho capito leggendo Pep Guardiola – Il calcio come rivoluzione infinita (edito da 66thand2nd) di Alfonso Fasano è che Guardiola deve odiare anche lui questa definizione – filosofo – che, come tutte le altre, si è ritrovato appiccato addosso suo malgrado. Guardiola si considera un pragmatico, come tutti gli uomini che coltivano la presunzione e il piacere di poter trovare la soluzione a qualsiasi problema. Spesso le sue squadre e il suo calcio sono stati paragonati alla Sagrada Familia di Antoni Gaudí, per ovvie ragioni. Innanzitutto geografiche, perché la Catalogna e Barcellona lo hanno influenzato più di qualsiasi allenatore o squadra. Poi estetiche, perché l’allenatore immagina linee sull’erba come l’architetto dentro la pietra. Ma Guardiola, sono certo, del paragone tra sé e Gaudí non vuole saperne nulla. Sono certo si immagini più vicino a uno dei muratori che quella cattedrale l’hanno effettivamente costruita e non soltanto immaginata. Suo padre, don Valentí, era un muratore che costruì la casa di famiglia con le sue mani, un’origine proletaria di cui Pep è sempre stato orgoglioso ammiratore: nella sua retorica, i richiami al lavoro inteso in senso manuale sono sempre stati tantissimi. Guardiola non considera il suo un mestiere intellettuale, tant’è che alla definizione di allenatore di campo ci ha sempre tenuto molto. Perché intende il campo come un cantiere, simili a quelli nei quali suo padre passò tre quarti della sua vita.

Nonostante Guardiola sia stato raccontato spesso e volentieri e giustamente come un rivoluzionario, sorprende ritrovare nella sua biografia un rispetto quasi ossequioso per il passato e per la tradizione. Per il padre Valentí, ovviamente, e per l’altro padre, quello calcistico, Johann. Certo è impossibile definire Guardiola un conservatore o un reazionario, ma rileggere la sua storia in ordine cronologico e sequenza logica aiuta a vedere la verità: non c’è un allenatore che abbia lo stesso rispetto e la stessa passione di Guardiola per quel che c’è stato prima di lui, ed è da quel rispetto e da quella passione che viene il desiderio di spostare sempre un po’ più in là i confini del gioco. È necessario a garantire al calcio sopravvivenza e prosperità. Essere ossessionati, d’altronde, in buona parte significa questo.

Per Guardiola è stato così al Barcellona, dove ha trascorso quattro anni leggendari e sfibranti cercando di restituire i blaugrana alla loro stessa storia. È stato così al Bayern, dove ha accettato giocatori (uno su tutti: Thomas Müller) di cui in altre situazioni si era liberato anche con un certa spietatezza – le rivoluzioni non sono pranzi di gala, si sa – solo per dimostrare che lui alla Streitkultur tedesca ci si poteva adattare benissimo. È stato così al Manchester City, la squadra con la quale ha celebrato il suo stesso funerale. Anni dopo aver istituzionalizzato l’odiatissimo Tiqui Taca – odiatissimo da Guardiola stesso, perché sterile e giornalistica riduzione di un concetto vitale – Guardiola va in Inghilterra e comincia a comprare un sacco di energumeni capaci alla stessa maniera di accarezzare il pallone con i piedi e di abbattere muri a spallate, di toccare piano piano nel gioco corto e di frustare il pallone per coprire tutto il campo con un solo lancio lungo, di danzare sulle punte e fare la corsa campestre. Un tentativo ormai riuscito di sintesi tra il gioco posizionale spagnolo (cioè olandese) e il lancia&corri ancora tanto caro agli inglesi.

È in cose come questa che sta la rivoluzione infinita di cui sopra, quella convinzione che fa di Guardiola una sorta di trotzkista del pallone: la rivoluzione è permanente, si può attuare in ogni momento e in ogni luogo, esportare in tutti i Paesi e i campionati. Non solo si può, si deve attuare: il cambiamento è il meccanismo a moto perpetuo che alimenta la macchina calcistica di Guardiola, un altare infuocato sul quale lui è stato disposto a sacrificarsi in più occasioni. L’hanno chiamata overthinking, quella tendenza a «pensare troppo a tutto» che si porta dietro da quando era un giocatore. Alcuni pensano sia insicurezza e altri vanità, cioè l’una l’opposto dell’altra (per tornare al discorso di prima su un uomo che riesce a essere allo stesso tempo una cosa e il suo contrario). C’è chi dice sia tutta colpa di Leo Messi, ovvero dell’ultima volta che Guardiola decise che una cosa non sarebbe cambiata mai: Messi sarebbe sempre stato “il centravanti” del Barcellona e questa decisione alla fine segnò l’inizio della fine di quel Barcellona. Da quel momento in poi Guardiola ha deciso che non avrebbe smesso di cambiare, non avrebbe interrotto la rivoluzione per nessuna ragione al mondo, che il cambiamento, nelle sue squadre, sarebbe stato come «la musica nei centri commerciali», come scrive Fasano: senza inizio, senza fine e, talvolta, anche senza senso. Questo, indubbiamente, lo ha fatto precipitare in un solipsismo che lo ha convinto che non ci sia niente di più normale che stravolgere la formazione titolare di una squadra il giorno prima di una semifinale o addirittura di una finale di Champions League.

La cosa più incredibile della storia di Guardiola è accorgersi che la parte dedicata alla vittoria e quella dedicata alla sconfitta occupano più o meno lo stesso spazio. Guardiola ha vinto tantissimo ma ha anche perso moltissimo. Questo fatto, come tutti gli altri fatti della sua vita sportiva, ha costretto il mondo che gli sta attorno, quello del calcio, a ripensare il modo di raccontarsi. Come si misura, dunque, la grandezza degli allenatori se il più importante e influente tra questi ha vinto tanto quanto ha perso? Bastano i numeri o servono anche i concetti, c’è bisogno pure del contesto? Forse il merito più grande di Guardiola, la testimonianza fondamentale della sua importanza sta proprio nell’aver costretto un mondo iper conservatore come quello del calcio a correggere il linguaggio per raccontare la sua storia. O, forse, il monumento a Guardiola è fatto delle crepe che lui stesso si sforza di aprirci ogni giorno, di quel lavoro costante di tesi-antitesi-sintesi in cui è spesso lui, da solo, a porre la prima, anteporre la seconda e realizzare la terza, in un’infinita contraddizione con se stesso che è la fonte della sua infinita creatività. O, forse, il lascito di Guardiola al gioco sarà la semplicità con la quale ha spesso descritto il suo lavoro nei momenti di crisi, una frase che rappresenta perfettamente il concetto della rivoluzione infinita dentro un mondo come quello del pallone: «Sto facendo degli errori, ci sono dei problemi e devo risolverli».