Valentina Giacinti, il calcio è non accontentarsi mai

Intervista all'attaccante della Nazionale.

Valentina Giacinti, da piccola, prendeva le bambole che le venivano regalate e le staccava la testa. «Le trasformavo nel mio gioco preferito: il calcio». Le veniva naturale farlo allora, calciando quei pezzi di plastica ghigliottinati, le viene naturale adesso, perché il calcio è la sua vita, dice, da appassionata, consumatrice, soprattutto da protagonista in Serie A e con la Nazionale. Ha 28 anni e in carriera ha segnato oltre 280 reti, ha disputato le competizioni più prestigiose, giocato e segnato in un Mondiale. Ha vinto in tre stagioni diverse la classifica capocannonieri del nostro campionato. Lo aveva scritto nel suo dna, che quello sarebbe stato il suo destino: «A scuola dicevo: da grande voglio fare la calciatrice», e anni fa non era un sogno così scontato. Oggi, invece, anche grazie a lei, migliaia di bambine italiane possono sperare di seguire le sue orme.

Valentina fa parte di quella generazione “di mezzo”: ha vissuto sulla sua pelle la fatica di imporsi, da ragazzina, in un mondo che prestava attenzione soltanto agli uomini, ma ha anche attraversato tutta quella transizione che ha portato e sta portando il calcio femminile italiano a una nuova dimensione, più professionale, oltre che professionistica. Nella testa di calciatrici come Giacinti accontentarsi è una parola che non può far parte del vocabolario personale: la rincorsa è stata troppo lunga per non imporsi di arrivare fino in fondo. Quest’anno la centravanti azzurra lo ha pure rimarcato con una scelta di carriera, che è anche di vita: si è rimessa in discussione, salutando il Milan dopo tre stagioni e mezzo per accettare la Fiorentina. La prossima sfida di club non è ancora scritta: prima c’è un obiettivo cerchiato in rosso. Anzi, in azzurro.

Ⓤ: Come arriva l’Italia agli Europei?

Sarà un torneo più difficile del Mondiale: Stati Uniti a parte, le squadre europee sono le più forti. Non sarà facile, ma vogliamo andare agli Europei con lo spirito che abbiamo portato al Mondiale tre anni fa: prima il gruppo, poi tutte noi. Da allora c’è stata una crescita importante, l’obiettivo è portare l’Italia il più in alto possibile.

Ⓤ: Di quel Mondiale qual è il ricordo più bello?

L’atmosfera. E poi la fatica di conquistarmi il posto: non solo in quel mese lì, ma con un lavoro di anni. Poi ho sempre sognato di segnare un gol ai Mondiali, quando ci sono riuscita sono esplosa di gioia. È stato liberatorio. Ogni volta che vedo il video di quella rete piango. Mi emoziono.

Ⓤ: Hai parlato di sogni. Diventare calciatrice è sempre stato il tuo.

Sin da piccola. I miei genitori mi hanno iscritto a una scuola calcio: c’erano solo maschietti, io ero l’unica ragazza. Mi sentivo un’eccezione. Fino ai 14 anni, fin quando era possibile, ho fatto tutto il percorso. Pensavo dovesse finire lì, invece è successo che sono stata chiamata dall’Atalanta femminile: quasi ero scioccata. Da lì, poi, sono arrivata fino in prima squadra. Quando sono andata a Napoli a giocare in Serie A, ho capito che poteva diventare una professione. Ho creduto ancora di più in questo sport, ho fatto di tutto perché il movimento crescesse. Ho sempre e solo voluto giocare a calcio. Adesso ce l’ho fatta.

Ⓤ: In tutto questo tempo il mondo attorno a te, il tuo mondo, si è trasformato.

Ricordo i primi anni. Ci allenavamo la sera in campi impraticabili, finivi alle dieci e arrivavi a casa a mezzanotte, non cenavi e andavi direttamente a dormire. Il giorno dopo si ricominciava tutto da capo. Le ragazze più grandi che si allenavano con me lavoravano, potevano dedicarsi al calcio solo la sera. Era un modo amatoriale. All’inizio questa cosa mi ha spaventato, ma ero ancora molto giovane. Poi dopo la scuola ho capito che c’era la possibilità che tutto questo potesse diventare qualcosa di serio.

Ⓤ: Fino alla conquista dello status da professioniste.

Ce lo aspettavamo dopo il Mondiale. Abbiamo dimostrato che il calcio femminile piace, ha valore, riscuote numeri importanti e riempie pure gli stadi. Da allora siamo riuscite a fare uno step incredibile di visibilità. La vittoria più bella è stata aver convinto i genitori a iscrivere le ragazzine ai corsi di calcio, qualcosa di più importante del professionismo stesso. Quello poi è stata una conseguenza, e dopo, credo, ce ne sarà un’altra: potrebbe essere giocare negli stadi più importanti, o avere ancora più attenzione intorno a noi.

Ⓤ: Pensi dunque di incarnare un ruolo da esempio, da ispiratrice?

Sentiamo di rappresentare le future giocatrici. Cerchiamo di essere da esempio, di indirizzarle verso la strada giusta. Tante ragazze mi scrivono sui social, mi dicono che vorrebbero diventare come me, mi chiedono cosa possono fare, e io cerco di consigliarle. È una popolarità che è bella, ma è anche difficile da gestire per noi che non siamo abituate. Le critiche, i messaggi sui social, i commenti che possono far male… sono cose che stanno arrivando anche nel calcio femminile, e bisogna essere preparati.

Ⓤ: Parlando di evoluzione e conquiste, siamo ancora lontani dal compimento di questo processo, giusto?

Penso che il calcio femminile non sia ancora esploso del tutto in Italia. Ci sono società che stanno investendo tanto, per esempio Juventus, Milan, Inter, Roma, eccetera. La Juve secondo me rappresenta al meglio questo processo, lo abbiamo visto con i risultati in Champions, con i vari programmi giovanili, e così via. Anche dalla Fiorentina, in questi mesi, sono rimasta colpita per il modo in cui credono nel movimento e per le opportunità che danno alle ex giocatrici nel post carriera. Però non basta, c’è ancora del lavoro da fare: con le strutture, con la pubblicità. Una partita al Camp Nou o allo Juventus Stadium non è come giocare al Vismara o a Vinovo: per noi, perché giocare su un campo sintetico piccolo non è la stessa cosa di un San Siro, per le televisioni, per il pubblico. Penso che con il professionismo occorra fare anche questo tipo di step, assicurare alle calciatrici le stesse strutture di cui beneficiano gli uomini.

Ⓤ: A livello di competenze invece cosa pensi manchi ancora?

Credo che sia importante avere allenatori preparati, spesso nel calcio femminile ci sono figure scelte solo per il nome. Invece noi abbiamo bisogno di persone competenti che ci aiutino, che ci facciano crescere. Prendi la Juventus, dove Montemurro ha portato esperienza, un nuovo modo di giocare, tanto entusiasmo. Ma anche in Nazionale, Milena Bertolini è un’allenatrice molto preparata, ci aiuta molto, ci permette di esprimerci al meglio. Io sono andata via dal Milan perché mi accorgevo di non crescere più, e io volevo crescere ulteriormente. Tutte vogliamo crescere. Cerchiamo sempre di più, non vogliamo accontentarci.

Ⓤ: Nella tua carriera da chi hai appreso di più?

Ogni allenatore ti insegna qualcosa, così come ogni compagna di squadra può darti qualcosa da cui imparare. È tutto un processo: imparare, conoscere, crescere, anche sbagliare. Tra gli allenatori che mi hanno dato di più sicuramente Michele Zonca, quando ero all’Atalanta, e che poi mi ha fatto andare a Napoli. Gianpiero Piovani che a Brescia mi ha fatto esplodere, mi ha fatto capire il mio valore. E poi Patrizia Panico quest’anno alla Fiorentina, mi ha preso in una situazione difficile e mi ha aiutato a uscire da un limbo in cui stavo male. Al Milan non mi sentivo più valorizzata, non posso che ringraziare Patrizia perché ha creduto in me, è stato un gesto molto importante.

Ⓤ: Tre volte capocannoniere di Serie A, un poker in un derby di Milano, dieci gol nelle ultime tredici partite in Nazionale… un curriculum da attaccante enorme. C’è qualcuno a cui ti ispiri?

Guardo tantissimo calcio, mi piace seguire un po’ di tutto. Il primo ricordo che ho del calcio è Bobo Vieri, l’ho sempre seguito in qualsiasi squadra andasse. Poi, crescendo, ho avuto modo di apprezzare il modo di giocare di Morata, che è un attaccante che si sacrifica tanto ed è un aspetto che mi piace. Poi magari non fa gol perché si spende tanto fisicamente, ma il lavoro che fa per la squadra è immenso. Oggi comunque penso che Benzema sia l’attaccante più forte al mondo. Nel calcio femminile, invece, i miei modelli sono Patrizia Panico e Melania Gabbiadini.

Ⓤ: Il futuro del calcio femminile italiano sarà in discesa?

Ci vogliono ancora anni per una crescita dirompente del movimento, in fondo sono solo 4-5 anni che ci alleniamo in modo professionale. Sicuramente le generazioni che verranno dopo di noi saranno agevolate, riusciranno ad ambientarsi più in fretta, ma noi ragazze della mia generazione siamo un po’ avvantaggiate perché siamo mentalmente più forti, visto che sappiamo cosa abbiamo vissuto per arrivare fin qua. Questo occorre fare con le più giovani, dare importanza al lavoro mentale.

Ⓤ: E il tuo di futuro?

Mi piacerebbe vincere qualcosa con un club. E fare qualcosa di importante con la Nazionale, al prossimo Europeo e poi al Mondiale successivo. Sono obiettivi più collettivi che personali, li ritengo più gratificanti. Per me una vittoria con il gruppo è più importante di una a livello personale.

Dal numero 45 di Undici
Foto di Mattia Parodi, Moda di Francesca Crippa. Tutti i look adidas.