Il calcio di oggi assomiglia sempre di più a un tritacarne di talento?

L'effetto delle super-squadre: tanta concentrazione di campioni, più concorrenza, più pressioni, maggior facilità di dilapidare un clamoroso patrimonio tecnico.

Nell’ultima finale di Champions League, il Real Madrid aveva in campo alcuni dei giocatori più forti al mondo: Benzema, Modric, Kroos, ma anche Vinicius, Alaba, Casemiro. Ovvio: si tratta pur sempre della squadra campione d’Europa. Più sorprendente che l’elenco di giocatori di primissima fascia possa tranquillamente estendersi a chi, in quella serata, sedeva in panchina: tra loro, Hazard e Bale, due giocatori arrivati a costare cento milioni (e oltre) che complessivamente, in tutta la fase a eliminazione diretta della Champions madridista, hanno messo insieme la miseria di quindici minuti in campo.

Tanto il belga quanto il gallese hanno vissuto problemi fisici che ne hanno compromesso le prestazioni degli ultimi anni: l’idea, però, che due giocatori di statura elevatissima, oggi, possano “accontentarsi” di scaldare la panchina nel corso di una finale di Champions, non appare più come un’eresia. Per dire: ad assistere al match dalla stessa visuale di Ancelotti c’era gente come Isco, Marcelo, Camavinga, Rodrygo. Basti pensare che, per costo dei cartellini, l’undici titolare del Real Madrid visto a Parigi è costato circa 280 milioni di euro. Chi era in panchina, circa 345 milioni.

Il discorso ovviamente non riguarda soltanto il Real Madrid ma può essere esteso a tutte le squadre più forti (e ricche) del continente: per una semifinale di Champions, Guardiola non ha avuto problemi nell’escludere dai titolari l’acquisto più dispendioso della storia del City – quel Jack Grealish costato oltre 115 milioni di euro. Per non parlare del Psg, con il tridente Draxler-Di María-Icardi, potenzialmente titolare in qualsiasi squadra, scivolato indietro nelle gerarchie con l’arrivo di Messi.

È l’evoluzione delle super-squadre, conseguenza diretta dello scenario economico impostosi nel calcio europeo: la sempre più marcata polarizzazione finanziaria, con le top squadre di Premier League, più Paris Saint-Germain, Real Madrid e Bayern Monaco che hanno scavato un divario quasi incolmabile con tutte le altre realtà. Questo accentramento di ricchezza produce un potere d’acquisto decisamente sproporzionato: è il motivo per cui oggi i top player hanno possibilità di approdo molto più ridotte (un Erling Haaland, non fosse andato al City, sarebbe andato al Real o al Psg o al Liverpool, e basta). È pure il motivo per cui si sta sempre più delineando un mercato “interno”, quasi riservato, con quei calciatori – forti anche di ingaggi fuori portata per la maggior parte delle società – che si muovono in quel perimetro di club ristretto, come Sterling e Jesus che dal City sono passati rispettivamente a Chelsea e Arsenal.

È il modello dei Galácticos di inizio anni Duemila, quando il Real Madrid impilava grandi nomi su grandi nomi – con acquisti a sensazione che monopolizzavano ogni finestra di calciomercato europea, da Figo a Zidane a Ronaldo e Beckham – per costruire la forma più evoluta di super-team (altri ce ne erano già stati, vedi il Milan di Sacchi prima e Capello poi). Oggi, però, questa situazione non è più una velleità personalistica, di cui un calciatore di prima fascia poteva decidere se essere complice o meno: è una situazione sedimentata in maniera trasversale e soprattutto non fornisce alternative. Un giocatore di altissimo livello inseguirà sempre la più ambiziosa delle possibilità: concorrono valutazioni di ordine prettamente sportivo (se vado in un top club posso puntare a vincere campionato e Champions, magari anche trofei individuali) e di ordine economico (in un top club il mio ingaggio sarà giocoforza più alto, e al tempo stesso anche gli accordi commerciali personali saranno più remunerativi).

Se poche squadre possono permettersi i giocatori più forti in circolazione, allora in ognuna di quelle squadre ci sarà una concentrazione spropositata di campioni. La concorrenza si fa più feroce ed è ogni giorno più esigente: ci sono calciatori che in un’estate rappresentano i colpi pregiati, e quella successiva sono già fuori moda per colpa dei nuovi arrivi. C’è chi accetta di cambiare squadra consapevole di accettare una situazione simile, per i motivi detti sopra: per qualcuno, vedi Grealish, toccherà fare più panchina di quanto sperato, per altri, vedi Luis Díaz, il ricavare sempre più minuti su minuti lo porterà ad avanzare di gerarchie e a conquistarsi un posto nell’undici titolare. I top club, al tempo stesso, non sono più preoccupati che un loro investimento possa deprezzarsi: hanno fin troppa disponibilità economica per poter rimpiangere un acquisto sbagliato, e spesso acquistare un giocatore, nella loro prospettiva, vuol dire sottrarlo a un potenziale rivale, piuttosto che scegliere deliberatamente di cucirgli attorno un progetto tecnico.

Appena 14 partite nella scorsa stagione, considerando tutte le competizioni: Isco al Real Madrid è ormai un semplice rincalzo (JOSE JORDAN/AFP via Getty Images)

Tutti contenti? Non proprio. Siamo nell’era calcistica in cui lo “spreco” di talento è più attuale che mai: grandissimi calciatori costretti ad accontentarsi di scarso minutaggio, accantonati per far posto a colleghi con migliori referenze, tecniche o anagrafiche, in rotta con un progetto tecnico ma intrappolati nel loro club di appartenenza, per questioni perlopiù economiche. Alcuni dei nomi li abbiamo già elencati, da Hazard a Bale, da Draxler a Isco, da Icardi a Grealish. Ma anche, ripensando agli anni passati, nomi come Mata, Özil, James Rodríguez, Coutinho, Lo Celso.

Ognuno di questi calciatori ha vissuto traiettorie diverse, ritrovandosi in una fase di stagnazione in momenti diversi della carriera. Tutti sono però accomunati dalla necessità di sposare determinate squadre – piuttosto che determinati progetti tecnici – perché rimanere fuori dal livello top vuol dire non essere riconosciuto come un calciatore top. I casi di grandi campioni che hanno ripiegato su squadre di prima fascia non sono terminati, ma presuppongono bocciature oppure rappresentano esplicitamente finali di carriera. Per qualcuno di loro, una simile situazione – sotto più di un punto di vista, da quello sportivo a quello commerciale – rischia di passare come un fallimento: è il motivo per cui si preferisce lasciare il calcio europeo e cambiare continente, come è successo a molti giocatori quest’estate.

Il caso principe di questo fenomeno, rimanendo agli ultimi anni, è quello di Eden Hazard, che nel 2019 ha lasciato il Chelsea per il Real Madrid. In Inghilterra, Hazard era uno di quei giocatori in grado di far vendere il “prodotto” Premier: artistico, visionario, sbalorditivo. Le sue giocate erano perfette per confezionare un teaser sulla bellezza di quello che avresti visto sui campi inglesi. Ovviamente Hazard è stato anche un trascinatore, un leader tecnico, vincendo con i Blues due Premier e due Europa League, ma a un certo punto della sua carriera anche quella dimensione sembrava stargli stretta. La necessità di trionfare nel contesto della super-squadra lo ha piegato a difficoltà inattese: prima fisiche, poi di condizione, quindi ambientali. La scelta di trasferirsi nel Real era legittima, ma da allora non abbiamo più ritrovato il vecchio Hazard, fuori forma e sempre più immalinconito, troppo ingombrante per poter essere parcheggiato al primo offerente.

Jack Grealish è l’acquisto più costoso nella storia del Manchester City, ma nella prima stagione ha giocato solo cinque gare da titolare in Champions e 22 in Premier (Michael Regan/Getty Images)

Una situazione in cui si è rispecchiato anche Gareth Bale, che al contrario del belga ha spaccato il mondo Real nelle sue prime stagioni spagnole: negli anni successivi il gallese si è sempre più acceso a intermittenza fino a spegnersi completamente, anche lui vittima di costanti noie fisiche e di uno scarso feeling con il mondo e i media madridisti – tra golf e Nazionale gallese sembrava non avesse nemmeno avuto il tempo di imparare lo spagnolo, ma provate a indovinare in che lingua ha parlato nel suo primo messaggio alla tifoseria del Los Angeles Fc. Pure Bale è rimasto schiacciato da un peso sempre più opprimente, da un contesto sempre più competitivo, dove il piacere di giocare ha finito per rappresentare un aspetto secondario, sormontato dal dover soddisfare le aspettative collettive.

Viene da pensare ai tantissimi giocatori che non hanno nemmeno avuto la possibilità di brillare: la lunghissima lista di promesse bollate come “incompiuti”, dati in pasto in contesti troppo competitivi per poter esercitare la virtù della pazienza. In Premier è successo con nomi come Ndombele, Pépé, Bergwijn, al Real Madrid con il neo-viola Jovic, per non parlare degli infiniti sprechi del Barcellona più recente. Le super-squadre sono spietate: non aspettano. Tante volte, invece, la bellezza necessita tempo per mettere radici, schiudersi e fiorire. Nel calcio darwiniano di oggi, una debolezza. E un grandissimo spreco.