Campioni d’ombrellone: Inter 1999/2000

Vieri, Ronaldo e Baggio in attacco, Marcello Lippi in panchina: doveva essere una marcia trionfale, fu un calvario tecnico ed emotivo.

Se non fosse stato se stesso, Marcello Lippi sarebbe stato Paul Newman. D’altronde, della somiglianza fisica con la star di Hollywood è sempre stato orgoglioso. Talmente orgoglioso che in certi momenti ha dato l’impressione di voler imitare l’arte dell’attore con la sua vita da allenatore: Lippi il duro, come Newman in Butch Cassidy; Lippi la canaglia, come Newman nel Colore dei soldi. Newman diceva che la dannazione dell’attore avviene nel momento in cui smette di pensarsi tale e comincia a considerarsi una stella, era convinto che la salvezza stesse nella capacità di scegliersi i propri progetti. Chissà se erano questi i pensieri nella testa di Lippi quando decise che era arrivato il momento di lasciare la Juventus: aveva cominciato a considerarsi una stella e si era stufato di fingere che la luce juventina emanasse dalla triade Moggi-Giraudo-Bettega? O aveva deciso di scegliersi il suo progetto, uno in cui potesse comandare come quelli che considerava i suoi pari, Del Bosque a Madrid, Ferguson a Manchester, Hitzfeld a Monaco di Baviera?

«Se il problema sono io, allora è giusto che me ne vada», pare abbia detto ai giocatori della Juventus dopo la sconfitta in casa contro il Parma di Malesani (2-4). Teatrale come ci si aspetta sia il Paul Newman del calcio, melodrammatico come solo la versione italiana di un divo hollywoodiano può essere. Dopo quella partita diede le dimissioni, anche se tutti sapevano già che a giugno il suo contratto sarebbe scaduto e la società non glielo avrebbe rinnovato. Così, però, era lui che andava e non loro che lo cacciavano. Cento giorni dopo le dimissioni, il 18 maggio del 1999, concesse a La Stampa – quotidiano di Torino – la prima intervista da allenatore dell’Inter: accanto al titolo “Juve, non ti ho tradita, fu una scelta quasi obbligata”, una sua stupenda foto di profilo che sembra quasi un acquerello, occhi socchiusi, labbra strette attorno al sigaro, la narice leggermente allargata dalla sforzo dell’inspirazione. Sembrava un attore di Hollywood, sembrava Paul Newman.

Era la prima intervista da allenatore dell’Inter e si parlava solo di Juve, e chi all’epoca voleva capire a questo punto già sapeva – temeva, sperava – come sarebbe andata. Lippi che ce l’ha con la dirigenza bianconera (leggendario il suo «se parlo io…») ma non con la proprietà, Lippi che spera che i tifosi della Juve non lo abbiano dimenticato e che ogni tanto Moggi lo sente ancora, Lippi che chiude l’intervista dicendo che si augura «di dare all’Inter la mentalità vincente della mia Juve. Ma ne parleremo al momento opportuno. Non sarà facile fare meglio». Sembrava uno scherzo crudele ai danni dei tifosi dell’Inter, ma dopo l’anno dei quattro allenatori – Simoni, Lucescu, Castellini e Hodgson – Moratti era convinto non ci fosse altra scelta.

Marcello Lippi e Dario Simic (Claudio Villa/Allsport)

Lippi andò all’Inter perché si sentiva una stella e perché voleva scegliersi il suo progetto. Arrivò a Milano come un conquistatore – «mi sta bene essere qui come il più bravo, significa che il mio lavoro è stato apprezzato» – e abbattendo i templi vecchi e gli idoli antichi per costruirci sopra i suoi, nuovi ed estranei. Decise di cedere Pagliuca, Bergomi e Simeone, prese Peruzzi, Panucci, Blanc, Domoraud, Georgatos, Jugovic, dal prestito al Venezia rientrò Álvaro Recoba e, soprattutto, dalla Lazio arrivò Christian Vieri. In rosa c’erano già Zamorano, Baggio e Ronaldo, e ovviamente si cominciò subito a parlare di attacco più forte del mondo. Nonostante non avesse proprio nulla di cui lamentarsi, Lippi cominciò subito a innervosirsi. La stagione partì bene, nelle prime cinque giornate l’Inter raccolse 13 punti, alla sesta però perse contro il Venezia e alla settima arrivò il Milan. Prima del derby d’andata – che l’Inter perse per 2-1 – Lippi e Zaccheroni furono protagonisti di un’intervista doppia su Repubblica. Lippi parlò di campioni che non sono diversi da tutti gli altri giocatori e ai quali non vanno concesse «chissà quali bizze, chissà quali privilegi». Elogiò Ronaldo – che quel derby contribuì a farglielo perdere, facendosi espellere dopo aver segnato il rigore dell’1-0 nerazzurro – perché dopo «una chiacchierata» con lui aveva cambiato subito atteggiamento. Ovviamente, Lippi non parlava di Ronaldo ma di Baggio.

In privato e in pubblico, Lippi e Baggio si detestavano. Nella sua autobiografia Una porta nel cielo, Baggio racconta che Lippi aveva l’abitudine di recitargli monologhi interi in cui spiegava l’inutilità di un giocatore come lui nell’Inter del presente e del futuro. Roby stava lì, con le braccia incrociate e lo sguardo di chi in quel momento rimpiange la scelta non violenta, e lo fissava in silenzio. Pare che Lippi lo redarguisse anche per i pasti sbagliati in ritiro e rimproverasse i compagni che in allenamento applaudivano un dribbling del numero 10. Chi conosce Lippi racconta che di tutta la sua annata nerazzurra la cosa che visse peggio non furono le sconfitte con il Venezia, con il Lecce, con il Bari, con l’Udinese, le difficoltà negli scontri diretti, i continui cambi di modulo e formazione o il fatto di essere passato in pochi mesi dalla lotta per lo scudetto a quella per un posto al preliminare di Champions League. Chi conosce Lippi racconta che di tutta la sua annata nerazzurra la cosa che visse peggio fu il fatto che a salvarla fu Roberto Baggio, un giocatore che a un certo punto nelle sue gerarchie veniva dopo Adrian Mutu, ragazzino rumeno arrivato dalla Dinamo Bucarest durante il mercato di riparazione. La prima partita di Mutu in nerazzurro fu al Bentegodi di Verona, che fu anche la prima partita della stagione decisa da Baggio: 1-2, gol da tre punti, interviste post-partita da man of the match con in testa il cappellino con su scritto Matame si no te sirvo, uccidimi se non ti servo.

Mesi dopo, ancora al Bentegodi, ancora Baggio, questa volta con una doppietta contro il Parma nello spareggio per il quarto posto. L’Inter salvò la stagione grazie a un giocatore rimasto solo per orgoglio: prima della partita con il Parma Baggio già sapeva che al novantesimo avrebbe smesso di essere un giocatore dell’Inter. In mezzo alla festa dell’Inter e di Baggio, Lippi. L’allenatore ebbe poi da dire anche su quel momento, in quel momento: per lui quella nottata addolcì Baggio dopo mesi di isolamento e frustrazione, tanto che il 10 lasciò Milano, secondo Lippi, regalando fiori a tutti ma riservando a lui solo coltellate (metaforiche, precisazione necessaria visto il rapporto tra i due).

Inter-Parma, lo spareggio

Anni dopo, Lippi dirà che all’Inter gli fecero pesare la sua juventinità. Nella sua versione dei fatti, lui è un capitano ingiustamente accusato di alto tradimento, un Alfred Dreyfus colpevole della sua stessa origine. Poco più di un anno dopo il suo arrivo, dopo un’eliminazione al preliminare di Champions contro l’Helsingborg (1-0 all’andata in Svezia, 0-0 al ritorno, con Recoba che sbaglia il rigore decisivo e Lippi che ammette che era così sicuro di passare il turno che nemmeno si era preparato la lista dei rigoristi) e una sconfitta alla prima di campionato a Reggio Calabria (2-1), Lippi lasciò l’Inter alla fine di una delle conferenze stampa più memorabili della storia del calcio italiano.

Risparmiò solo Massimo Moratti, presidente-Capo di Stato per colpa sua ingiustamente accusato di intelligenza con il nemico. «Se fossi il presidente manderei via subito l’allenatore, prenderei i giocatori e li appenderei tutti al muro, darei calci nel culo a tutti», disse, prima di alzarsi e andarsene perché aveva «solo questo da dire». Naturalmente, non si diventa Marcello Lippi senza avere un raffinatissimo istinto di autoconservazione: lui meritava di essere mandato via, certo, ma i calci in culo, quelli dovevano essere riservati ai giocatori.

La prima puntata di questa serie di articoli: Juventus 2009/10