Highlights — Il rapporto di Rafael Leão con lo spazio e con il tempo

La magia nello stretto tra Bastoni, De Vrij e Skriniar è il nostro momento preferito della quinta giornata di Serie A.

Di rado si ha il privilegio o il terrore di poter osservare su un campo da calcio giocatori mostruosamente fuori scala per il resto degli avversari. Non di quella singola squadra che si sta affrontando, intendo: ma per tutto il campionato. Per un’ora e mezza Rafael Leão sabato in Milan-Inter (3-2) ha mostrato di essere un giocatore capace di giocare non “un altro sport”, come vuole una frase da bar che sento ripetuta spesso nei commenti sul portoghese, bensì lo stesso sport degli altri ventuno in campo a una velocità, e con una superiorità tecnica e fisica capaci di generare il senso di meraviglia che solo certi spettacoli estetici, naturali o artificiali hanno il potere di generare.

Nello specifico, la finta di corpo nello stretto con cui supera De Vrij e Bastoni (e in parte Skriniar) per poi andare a segnare il gol del 3-1 è inaspettata e rapida come la comparsa, in un cielo violaceo di tempesta, di quelle ragnatele di fulmini che per un secondo abbagliano e lasciano subito dopo il posto a espressioni sbalordite e allo stesso tempo esaltate per aver testimoniato di un momento così unico, quasi sovrannaturale.

Quando riceve palla Leão è praticamente fermo: con il primo tocco di destro, unito alla finta di spalle impercettibile, ha già bruciato Bastoni e de Vri lasciandoli sul postoj. Con il secondo, con il piede opposto, si protegge dal tentativo di recupero di Skriniar, in ritardo da dietro. Adesso potrebbe tirare, forte sul primo palo, alzando magari il pallone per bucare Handanovic di potenza. Ne verrebbe fuori un tiro pericoloso, anche se difficile da convertire in gol. Invece Leão vuole di più: vuole portare all’estremo la possibilità offerta dallo spazio e dal tempo di quell’azione.

Allora fa altri due tocchi, sempre con il destro, sfiorando la sfera con l’esterno. Sono tocchi che avrebbero fatto allungare il pallone in modo irrecuperabile praticamente a chiunque, tranne che a creature capaci di magie e ragionamenti sovrumani. Come Messi, Neymar, e pochi altri. Leão, oggi, è una di queste creature. I due tocchi producono un attrito minimo con il pallone, e non rallentano comunque la corsa. Da dietro, infatti, nessuno riesce a mettere un piede in avanti, e la palla non si muove più velocemente verso Handanovic ma rimane attaccata al piede dell’attaccante. I due tocchi servono, alla fine, ad avere l’angolo perfetto per incrociare rasoterra sul secondo palo.

È normale pensare d’istinto alla superiorità fisica di un giocatore di questo tipo: l’accelerazione nello stretto ha dopotutto bruciato tre giocatori, e per tutta la partita nessuno è riuscito a togliergli il pallone né a contrastare la sua corsa. Si parla invece poco della velocità di pensiero necessaria per un’esecuzione del genere. Vedere lo spazio lasciato sull’esterno, prendere quel giro perché è naturalmente il meno difeso – chi passerebbe dal lato lungo, d’altra parte, per poi rientrare verso la porta in così poco spazio? – infilarsi lì, e in quel momento avere chiaro come gestire ogni frazione di secondo, e ogni movimento: è tutto incredibile, e anche riguardandolo decine di volte, non si riesce a capire davvero come riesce a far stare tutto quel muoversi in un tempo così ridotto.

Oggi guardare giocare Leão è un privilegio, più che un’esperienza. San Siro lo percepisce, perché dal vivo l’eco del talento arriva meglio che in televisione: e ogni volta che ha la palla cala il silenzio emozionato di chi non sa cosa aspettarsi ma sa che può aspettarsi qualsiasi cosa. Non si riesce ad anticipare un pensiero di Leão, a dire: adesso allargherà il pallone a destra, oppure sfrutterà una sovrapposizione del terzino. Lo si guarda, in un secondo che sembra un’attesa lunga cento volte tanto, e lentamente ci si solleva dal posto a sedere, per vedere meglio l’evento. Il gol del 3-1 contro l’Inter è un illusionismo: perché ti sembra che non sia possibile davvero teletrasportarsi in quel modo da un punto all’altro, e far riapparire il pallone in fondo alla rete. È per questo che viene da ridere, a vedere giocare Leão, come sembra che rida lui: perché è un gioco di magia e anche se il tabellino poi dice che quel gol è stato assegnato davvero, per giorni lo guardi e lo riguardi soltanto per capire dov’è il trucco.