Tutti noi abbiamo qualche scheletro nel telefonino, qualcosa che non vorremmo mai capitasse nelle mani, o sotto gli occhi, sbagliati. Il mio è una chat che se guardata con attenzione potrebbe farmi finire, insieme al mio amico Ettore, nelle liste di individui che il prossimo governo potrebbe decidere di attenzionare. Giorno per giorno, non contiene nulla di rilevante: ma quattro volte l’anno le conversazioni si fanno fitte e bizzarre, anche perché in un paio di casi si svolgono perlopiù fra le due e le quattro del mattino. Le prime battute sono domande molto generiche – come stai – accompagnate da risposte melò – sull’orlo dell’abisso. Poi gli scambi si fanno più fitti, a commento di qualcosa che va bene, male, bene, male. Si parla molto di piedi, di come si muovono. Di peso forma, forse superato di un paio d’etti. Di come in certi casi gli sponsor dovrebbero riflettere, prima di proporre certi accostamenti di colore. Di un’imprevista, allarmante goccia di sudore – e di come è stata asciugata senza darlo a vedere. Di un infinitesimo moto di stizza, che nessuno sembra aver notato. Ed è in genere lì, ai primi accenni di contrarietà, che. a turno o Ettore o io – ma è lo stesso, l’altro si adegua all’istante – cediamo il microfono, o le dita, a una misteriosa prima persona plurale, che va avanti fino alla fine del match: è che non dovevano farci giocare a quest’ora, non siamo quelli di ieri, se magari mettiamo dentro qualche prima, è che il vento ci dà un po’ fastidio. A un certo punto del delirio arrivano anche apprezzamenti sull’etnìa – non importa quale – di chi sta dall’altra parte della rete, e nel mio caso anche. Qualche interlocuzione con l’Essere Supremo, ma quelli per decenza li salto.
Il fenomeno di possessione demoniaca che ho appena descritto non ha nulla a che vedere col tifo, ma molto col modo in cui quasi tutti, auspicabilmente in forme più sedate, hanno guardato Roger Federer, negli ultimi vent’anni e rotti, giocare a tennis. Quelli di Roger non erano match, se non in un senso tutto sommato secondario: erano piuttosto rappresentazioni, spiccatamente teatrali, di quel misterioso incrocio fra una partita a scacchi, un disegno non euclideo e una danza che, in mancanza di termini più rigorosi, chiamiamo tennis. Rappresentazioni quasi perfette, beninteso, con cui era semplicemente intollerabile che entità malevole e minori come, che so, un avversario osassero interferire. E qui anche non volendo devo tornare sulla possessione – di cui del resto il tennis è fatto.
Può essere che chi non gioca non lo sappia, ma il primo sintomo del morbo, che in genere si manifesta poche ore dopo aver preso in mano una racchetta, è un allarmante offuscamento della personalità, e soprattutto della propriocezione. Dai primi scambi in poi – non importa se riusciti o no, anzi – il tennista smette di sapere chi è, e molto semplicemente immagina di essere, o di stare per diventare, qualcos’altro – il tennista perfetto, in sostanza. Cioè, negli ultimi due decenni, Roger Federer. Già. Molto prima che il vincitore di 20 Slam, il numero 1 per 237 settimane consecutive e così via Roger, dagli esordi fino a ieri pomeriggio, è stato il catalizzatore, ma anche la proiezione, di uno sterminato immaginario collettivo. Che soffriva con lui, trionfava con lui, e riviveva attraverso di lui, attribuendoglieli in diretta, gli stessi pensieri, sublimi e meschini, da cui chiunque è ossessionato ogni giorno sui campi del circolo: chi è questo straccione che ha osato farmi un quindici, chi lo ha messo nel mio tabellone, adesso gli faccio uno dei miei tweener. E così via.
Il tennis riserva infinite sorprese a chi lo vive, ma è difficile pensare che, almeno in un futuro prevedibile, questo tipo di identificazione perversa scatti con qualcun altro – Medvedev mettiamo, o Zverev. Il che rende più futile di quanto non sia per tutt’altre ragioni il dibattito sul GOAT – il più grande di sempre. I risultati parlano piuttosto chiaro, ma sono anche relativamente fragili: tanto per dire, se da qualche parte non salta fuori alla svelta un genio di cui non abbiamo notizia, e gli infortuni non si mettono di mezzo, oggi è difficile immaginare cosa impedirà a Alcaraz di mettere insieme, nei prossimi dieci anni, una quarantina di Slam. Ancora più difficile è immaginare qualcun altro che abbia, tutte insieme, le qualità su cui Federer ha costruito la sua mitologia: la fluidità, il genio, la grace under pressure, eccetera. O che si possa spingere, nel tennis, fino a dove si è spinto lui.
Gran parte dei giocatori in attività, a una domanda anche vaga su Laver o, figurarsi, su Bill Tilden, fanno chiaramente capire di non avere idea di cosa rispondere, almeno non prima di avere consultato uno smartphone. Roger no. Conosce a memoria non solo i risultati, di gran parte dei tornei giocati nella storia dello sport – spesso, anche i punteggi. È solo la spia di un sentimento più profondo, e assolutamente unico. Nell’autunno del 2016, durante i sei mesi di pausa per il primo infortunio al ginocchio, una troupe della BBC andò a intervistarlo sulle sue montagne, finendo inevitabilmente per parlare in parti uguali del suo possibile rientro, e del suo possibile ritiro, avendo compiuto 35 anni. Nemmeno lui era in grado di prevedere quello che sarebbe successo nel 2017 – il suo sensazionale ritorno in scena, con la vittoria prima agli Australian Open e poi a Wimbledon – e il pensiero di smettere, come ammise, non era poi così remoto. Ma qualunque cosa succeda, disse a un certo punto voltandosi verso un ghiacciaio, so che tutto questo – tutto questo non andrà mai via. Parlava del tennis, in fondo nello stesso modo struggente e limpido in cui ne ha voluto parlare oggi, alla fine della sua lettera d’addio: I love you, and I will never leave you.
Per certi versi, la decisione è stata presa al momento giusto. Nessuno aveva tutta questa voglia di vedere un quarantaduenne piuttosto fragile fare a pallate con uno qualsiasi degli energumeni che affollano il circuito, anche perché l’ultima volta che era successo l’energumeno di turno – che poi era il povero Hurkacz, un ragazzone soave che si era quasi scusato del misfatto – aveva vinto 6-0. Non è detto, però. Uno dei torti peggiori che si potrebbe fare a Rodge – è ora che lo ammetta, Ettore e io lo chiamiamo così, come fanno in famiglia – è raccontarlo come una specie di vecchio solista estenuato, tolto di mezzo da una stirpe di guerrieri straripanti, cui mai sarebbe stato in grado di opporsi. Poco prima della pandemia ho passato una lunga giornata con Jannik Sinner, allora quasi al debutto nel circuito. A un certo punto, per dare una svolta all’intervista, gli ho detto che secondo me ormai c’eravamo quasi, che lui e gli altri Next Gen cominciavano a correre più in fretta, e soprattutto a tirare più forte, dei vecchi, Big Four (o Three) compresi. Jannik ha alzato lo sguardo come non fa così spesso, e come fa quando gli serve ha attinto al meglio della concretezza sudtirolese: «Sì, guarda che non è che Federer tira piano».