Storia dell’amore infinito tra l’Atlético Madrid e il Sudamerica

Simeone è il simbolo del club, ma in fondo è solo uno dei tanti argentini, brasiliani o uruguagi che hanno fatto la storia dei Colchoneros.

A casa sua, in Argentina, Ubaldo Matildo Fillol è una specie di semidio, un monumento che cammina: è stato uno dei grandi protagonisti della vittoria al Mundial 1978 ma è riuscito a non farsi corrompere e contaminare dai significati politici di quel trionfo così grande e così controverso; non ha familiarizzato con il regime di Videla, anzi in qualche modo l’ha rinnegato, l’ha osteggiato, una cosa che ai suoi tempi sembrava impossibile anche solo da pensare, figuriamoci da fare. Alcuni mesi dopo la vittoria in Coppa del Mondo, infatti, Fillol accettò di firmare il rinnovo del contratto con il River soltanto alle sue condizioni, e portò avanti questa battaglia senza farsi impaurire dalle minacce che arrivarono direttamente dalla giunta militare, senza farsi scoraggiare dalle parole intimidatorie di Carlos Lacoste, un ammiraglio che nel frattempo era diventato vice-presidente della Fifa e che, per usare un eufemismo, non vedeva di buon occhio le manifestazioni di dissenso dei calciatori suoi connazionali. Nonostante questo vissuto piuttosto vivace, nonostante una carriera da sogno che ha toccato anche il Brasile, Ubaldo Matildo Fillol un giorno ha detto che «giocare nell’Atlético Madrid è stata una delle esperienze più belle che il calcio mi abbia regalato».

Prese così, da sole, le parole di Fillol devono essere considerate per quello che sono: la testimonianza di un calciatore argentino che è riuscito a comprendere e ad amare l’identità dell’Atlético nonostante abbia giocato con i Colchoneros per un’unica stagione, a cavallo tra il 1985 e il 1986. Se però teniamo conto della storia, di tutto quello che è successo prima e dopo il passaggio di Fillol per la città di Madrid, allora la percezione cambia: l’epopea dei calciatori latinoamericani che hanno fatto grande l’Atleti ci costringe a pensare che il determinismo geografico c’entri qualcosa, che l’anima argentina del Pato – lo storico soprannome di Fillol – fosse destinata a incastrarsi con quella del club, che esista un’affinità naturale, inspiegabile e quindi elettiva tra la squadra blanquirroja e i talenti calcistici che nascono in quella parte del mondo, come se l’Estádio Metropolitano, il Vicente Calderón e poi il nuovo Civitas Metropolitano – i tre impianti di casa nella storia dell’Atlético – fossero delle succursali dei campi infuocati che fanno da cornice al fútbol – o al futebol – sudamericano.

Come detto, a parlare è la storia: Fillol è stato il 12esimo giocatore argentino e il 24esimo latinoamericano a giocare almeno una partita ufficiale con la maglia a strisce biancorosse, prima di lui i tifosi colchoneros si erano già innamorati di fuoriclasse come Vavá e Hugo Sánchez, di allenatori come Helenio Herrera e Otto Glória; un altro grande tecnico argentino, Juan Carlos Lorenzo, aveva condotto l’Atleti alla prima finale di Coppa dei Campioni della sua storia, nel 1974. Dopo Fillol sono arrivati altri talenti e altri allenatori latinoamericani conosciuti in tutto il mondo: il brasiliano Alemão, il messicano Luís García, El Flaco Menotti, il ct argentino che condusse la Selección a vincere il Mundial del 1978 – uno dei tecnici più raffinati e visionari nella storia del gioco. E poi, nell’estate del 1994, fu la volta di un centrocampista dal gioco aspro e dalla faccia spigolosa, di un porteño purosangue reduce da due buone esperienze in Europa con le maglie del Pisa e del Siviglia: Diego Pablo Simeone.

Da calciatore, Diego Simeone ha giocato nell’Atlético in due periodi diversi: dal 199 al 1997 e poi dal 200 al 2005; in totale, ha accumulato 170 presenze e 31 reti con la maglia colchonera (Clive Brunskill/Allsport)

L’Atlético Madrid ha vinto tre titoli nazionali negli ultimi 45 anni, e Diego Simeone era sempre lì tutte le volte, protagonista assoluto accanto ad altri sudamericani: nel 1996, l’anno del doblete con Radomir Antić in panchina, El Cholo era in campo con Leonardo Biagini e Fernando Correa, un argentino e un uruguagio che non hanno lasciato grandissimi ricordi ai tifosi colchoneri; nel 2014 e nel 2021 Simeone era in panchina, ovviamente, e nel suo organico c’erano dieci e sette calciatori nati in Paesi latinoamericani. Sono numeri che evidenziano un cambiamento, una mutazione che riguarda l’intero multiverso del pallone, non solo la strategia di reclutamento dell’Atlético Madrid: nel 1995, alla vigilia della stagione del doblete, la sentenza Bosman impone che i calciatori comunitari non siano più considerati come stranieri in tutti i Paesi dell’Unione; di conseguenza i vecchi limiti – ogni squadra della Liga poteva avere in rosa non più di tre calciatori privi di passaporto spagnolo – riguardano solo i cosiddetti extracomunitari, i sudamericani, gli africani, gli asiatici; inoltre, a partire dal 2000 la Spagna permette a tutti gli atleti di alcune nazioni fuori dall’Unione Europea, tra cui quelle dell’America Latina, di ottenere la cittadinanza spagnola, quindi lo status di comunitario, dopo soli due anni di residenza su suolo iberico.

In virtù di tutto questo, a cavallo tra il secondo e il terzo millennio, l’Atlético Madrid ha molto più margine per inserire giocatori stranieri, e si rivolge soprattutto al mercato sudamericano: per giocare la Champions League della stagione 1996/97 il presidente Jesús Gil y Gil potenzia la squadra con l’argentino Juan Eduardo Esnáider, poi dodici mesi dopo è la volta di due brasiliani, il raffinatissimo Juninho e il difensore Andrei. La clamorosa – e tristissima – retrocessione del 2000 rallenta inevitabilmente il processo di crescita e internazionalizzazione del club, ma nei due anni passati in Segunda arrivano comunque il portiere argentino German Burgos e l’attaccante uruguagio Diego Alonso, entrambi rimasti nel cuore dei tifosi biancorossi, entrambi destinati a una grande carriera in panchina, il primo come vice (e guardaspalla) di Simeone, il secondo come tecnico vincente in Messico e come commissario tecnico della Celeste. La promozione in Liga viene festeggiata anche con il ritorno di Simeone, a cui viene affiancato Ariel Ibagaza, fantasista di enorme classe ma mai del tutto esploso, un elegante numero dieci lanciato dal Lanús e poi emigrato in Spagna, nel Real Maiorca, uno dei tanti diéz argentini candidati a raccogliere l’eredità di Maradona che poi non ce l’hanno fatta.

È evidente che, tra tutti i Paesi latinoamericani, proprio l’Argentina sia quello con cui l’Atlético ha la connessione più profonda, un legame quasi sentimentale: non a caso quella si tratta della squadra spagnola che ha accolto più giocatori argentini in assoluto, 52 in totale al termine della stagione 2021/22. Questa grande tradizione si rinnova a partire dal biennio 2005-2006, quando a Madrid sbarcano Maxi Rodríguez e Sergio Agüero detto El Kun, due talenti cristallini, due macchine calcistiche a sangue caldo che sintonizzano subito il loro cuore latino sulle frequenze emotive del Vicente Calderón. Maxi resta fino a gennaio 2010, quando accetta un’offerta del Liverpool, ma nel frattempo Agüero ha scoperto di avere un’intesa straordinaria con Diego Forlán, un letale attaccante nato a Montevideo, tennista in gioventù, fenomeno precoce all’Independiente, alternativa di Ruud van Nistelrooy al Manchester United e poi implacabile punta di movimento al Villarreal. Il trasferimento di Forlán a Madrid compensa l’inevitabile addio di Fernando Torres, idolo della tifoseria colchonera, e insieme a lui l’Atlético sembra sul punto di prendere anche Juan Román Riquelme, probabilmente l’ultima epitome del classico trequartista argentino, una specie di pittore di paesaggi prestato al calcio, anche lui reduce da grandi stagioni nel Villarreal. Sarebbe stato fantastico veder giocare Riquelme con la maglia biancorossa, ma alla fine il Calderón accoglie solo Forlán. E va bene così: è proprio l’attaccante uruguagio, autore della doppietta che decide la tiratissima finale contro il Fulham, a trascinare l’Atlético alla vittoria dell’Europa League 2010, a sigillare e suggellare un successo che riporta ufficialmente i Colchoneros nell’élite del calcio europeo. Nell’ultimo atto, giocato al Volksparkstadion di Amburgo, entrambi gli assist vengono serviti da Sergio Agüero. E sono entrambi bellissimi.

È giusto pensare e dire che il Cholismo abbia un dna latinoamericano? Dal punto di vista puramente etimologico, non ci sono dubbi: secondo una ricerca condotta dallo storico Lee Stacy, autore del saggio Mexico and the United States (Marshall Cavendish, 2003), il termine cholismo definisce «un movimento sviluppatosi nell’area di confine tra Messico e Stati Uniti, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, un’ideologia che puntava all’affermazione delle origini messicane dei molti giovani del luogo, che si sentivano schiacciati dalle teorie razziste dei bianchi americani». Forzando un po’ la chiave narrativa e geografica, è evidente che ci sia una prossimità tra la storia di certi popoli e quella dell’Atlético Madrid: è il topos eterno dei deboli contro i forti, della ribellione, dell’affermazione di un’identità differente contro istituzioni più grandi, più ricche, più potenti. Quando arriva a Madrid a Natale 2011, Simeone trova un terreno estremamente fertile per impiantare questo tipo di retorica, di identità rivoluzionaria: Forlán e Agüero sono andati via, ma Diego Godín (Uruguay), Filipe Luis (Brasile), Luis Perea (Colombia), Miranda (Brasile) ed Eduardo Salvio (Argentina) formano una colonia pronta a recepire le direttive del nuovo condottiero. A tradurre tutto in gol ci pensa un meraviglioso attaccante colombiano, una locomotiva con i piedi fatati che risponde al nome di Radamel Falcao. In realtà il primo Atlético di Simeone è una squadra che non esaspera la sua anima difensiva, anzi i primi grandi successi – l’Europa League 2011/12 e la Supercoppa Europea successiva – arrivano grazie a un calcio diretto che esalta lo straordinario senso del gol di Falcao, autore di cinque gol nelle due finali continentali e di 58 reti in 71 partite giocate con la maglia dell’Atlético, e con Simeone in panchina.

Nelle sue due stagioni all’Atlético, Radamel Falcao ha conquistato una Europa League, una Supercoppa Europea e una Copa del Rey (Scott Heavey/Getty Images)

Falcao lascia Madrid per il Monaco, al suo posto Simeone inserisce Diego Costa, un brasiliano atipico – forse anche perché arriva dal Sergipe, lo stato più piccolo della Federazione – che segna tantissimo ma è anche un agonista puro, un lottatore, un provocatore, un uomo che sembra fisicamente in grado di mettersi sulle spalle tutto il peso di una squadra di vertice. Con lui, grazie a lui, l’Atlético si trasforma in una squadra difensiva, intimidatoria, difficilissima da affrontare per chiunque, che ama compattarsi nella propria metà campo e poi ripartire in maniera forse elementare, ma anche efficace e talvolta spettacolare. Dal mercato, intanto, sono arrivati anche Diego Ribas da Cunha, Léo Baptistão e José Giménez, due brasiliani e un uruguagio che si inseriscono fin da subito nelle rotazioni di Simeone, e che contribuiscono a portare l’Atlético alla vittoria nella Liga e a un passo da un incredibile successo nella finale di Champions League – sfumato nei supplementari di un drammatico derby contro il Real Madrid, dopo che i Colchoneros sono stati in vantaggio fino al minuto 93’. Il gol decisivo per la conquista del titolo – al Camp Nou, contro il Barcellona di Messi e Neymar – e quello che porta l’Atlético in vantaggio nella finale di Lisbona sono a firma di Diego Godín, il totem del Cholismo, un difensore duro, instancabile, un leader tecnico ma soprattutto spirituale, praticamente la trasposizione di Simeone in campo. È lui la guida di una squadra che a partire da qui, anno dopo anno, si conferma e cresce in maniera vertiginosa, anche attraverso delle iniezioni di qualità offensiva, sempre con un occhio di riguardo all’America Latina: nello stesso anno di Griezmann arrivano il brasiliano Guilherme, il messicano Raúl Jiménez e poi due argentini, il terzino ambidestro Ansaldi e Ángel Correa, un 19enne fantasista di Rosario destinato a una lunghissima e luminosissima militanza in maglia rojiblanca; nel 2015 è la volta di Jackson Martínez, attaccante colombiano proveniente dal Porto, e poi di Luciano Vietto, Matías Kranevitter e Augusto Fernández, tutti argentini: nessuno di loro lascerà un grande ricordo, perché questa politica di mercato così estensiva è anche passabile di errore, dopotutto investire sul talento significa assumersi un rischio che non sempre paga. Come nel caso di Nico Gaitán, altro fantasista argentina arrivato dal Benfica nel 2016, pochi mesi dopo la seconda sconfitta in finale di Champions League, sempre contro il Real Madrid.

Siamo ormai ai giorni nostri, ai giorni del Wanda Metropolitano e di un Atlético che non tradisce mai quelle che ormai sono diventate delle vere e proprie tradizioni: il Cholismo e un mercato sempre orientato verso le Americhe. Il 2017 è l’anno del ritorno di Diego Costa, poi sarà la volta del terzino colombiano Santiago Arias, dei brasiliani Felipe e Renan Lodi, del messicano Héctor Herrera, dell’uruguagio Lucas Torreira, dell’argentino Rodrigo De Paul e soprattutto di Luis Suárez, che non ha avuto dubbi a scegliere l’Atlético una volta esauritasi la sua meravigliosa esperienza con il Barcellona. Con lui, soprattutto grazie a lui, ai suoi gol, i Colchoneros sono tornati di nuovo sul trono di Spagna. Poche settimane fa è stata la volta di Nahuel Molina e Samuel Lino.

In tutti questi anni, l’Atlético Madrid è diventato un top club riconosciuto, sia dal punto di vista tecnico che economico-finanziario. È come se Simeone e i calciatori sudamericani avessero idealmente trainato questa transizione, questo sviluppo, anche perché la dirigenza guarda soprattutto a quella parte del mondo quando c’è stato o c’è da comprare dei teenager per il futuro: di Correa abbiamo già parlato, ma anche Giménez – un altro uomo-simbolo dell’epopea di Simeone – è arrivato giovanissimo dal Danubio, esattamente come Renan Lodi dall’Athletico Paranaense, Caio Henrique (ora al Monaco) dal Santos, Nehuén Pérez (oggi all’Udinese) dall’Argentinos Juniors, Matheus Cunha dall’Hertha Berlino, e poi tanti altri ragazzi che poi si sono un po’ persi. In attesa che nuovi e grandi talenti rinsaldino un legame divenuto speciale, forse fa un po’ strano ricordare che un tempo l’Atlético guardava al Sudamerica «perché non possiamo guardare alla luna». Queste parole sono state pronunciate da Vicente Calderón, storico presidente colchonero, l’uomo a cui sarà intitolato lo stadio dell’Atleti, ed erano un’allusione al fatto che il suo club non avesse le risorse per acquistare giocatori già arrivati in Europa, già affermati, già riconoscibili a livello mondiale. Ecco, questo modo di fare mercato è diventato un’arte, poi una tradizione, e ha permesso all’Atlético di imparare ad arrivarci, sulla luna. Non solo a guardarla.