Quello che non vediamo dietro il risultato

Siamo abituati a giudicare gli atleti in base alle loro performance, che però rappresenta soltanto una piccolissima parte del loro quotidiano. Come dimostra un documentario dedicato a Federica Pellegrini.

Guardare Underwater, il documentario prodotto dalla Fremantle su Federica Pellegrini e sulla lunga preparazione alla sua quinta Olimpiade, è quasi doveroso per gli appassionati di sport e per i cosiddetti tifosi da divano. È l’immersione in un universo sconosciuto. È come avere accesso a un dilatato backstage. Mostra tutto quel che non vediamo e in fondo non vogliamo sapere della vita dell’atleta. Ci sintonizziamo quando c’è la gara, l’evento, alla ricerca di emozioni e adrenalina. Il resto ci interessa relativamente. 

Underwater quasi inchioda il telespettatore alle proprie responsabilità. Dopo aver visto il film, nemmeno il più superficiale consumatore di sport può evitare di provare imbarazzo ricordando le proprie reazioni di fronte alle performance degli atleti. Il documentario ti accompagna per mano lungo le albe, i viaggi, gli allenamenti che lo sport professionistico comporta. Un viaggio attraverso un lungo, lunghissimo, tunnel di sacrifici, dubbi, paure. Tunnel percorso fondamentalmente in solitudine, lontano dai riflettori, tra un aereo e un albergo. Spesso lontano dagli affetti.

È un’opera riuscita perché trasferisce il senso di precarietà che contraddistingue la vita dell’atleta. Com’è giusto che sia, è poi la gara a fare da spartiacque. A stabilire se sarai un campione celebrato o magari ad affibbiarti l’odiosa etichetta di perdente. Una gara che, nel nuoto come nello sci, di fatto è una performance al buio. Non si hanno certezze durante la competizione. Si provano sensazioni, questo sì. Ma il contatto col mondo reale l’atleta lo avrà solo quando guarderà il cronometro. E leggerà la sentenza.

Come dice Federica Pellegrini nel documentario: «Tutto dipende dal tempo, effettivamente tutto è sempre dipeso dal tempo. Il mio rapporto col tempo è sempre stato un rapporto molto buono, nel senso che l’ho sempre ritenuto l’unico giudice supremo: può essere o nemico o amico ma è un concetto oggettivo, senza perdono caritatevole, senza nessuna scusa».

Underwater (il titolo è azzeccatissimo) mostra, da dentro, l’immersione, la vita sott’acqua. La preparazione non è che un’esplorazione dei propri limiti, della propria tenuta mentale. Un’esplorazione di sé. Federica Pellegrini non ha avuto remore nel mostrare la sua telefonata angosciata alla psicologa dopo il mancato raggiungimento del tempo olimpico. La sensazione è di una persona in caduta libera in cerca di un appiglio. E la risposta della dottoressa è una fotografia: «L’adattamento è una tua forza», le dice. «Sembra che ti complichi la vita per metterti in condizione di tirar fuori tutto quello che hai». 

Nell’esplorazione di sé, il viaggio nella mente ha un ruolo fondamentale. È un tabù più per la narrazione sportiva che per gli atleti. Due campionesse come Federica Brignone e Sofia Goggia ne hanno parlato pubblicamente. Brignone si è spinta a dire: «Tutte sciamo bene. Ma fra arrivare prima e trentesima è un discorso di equilibrio mentale». E ha rivelato di essersi affidata all’ipnosi. «Niente pendolino da film. Nelle sedute entri in trance e, tramite delle allegorie, l’inconscio fa dei lavori pazzeschi. In due parole non si può spiegare». Goggia ha infranto il tabù della psichiatria: «Gli atleti di élite a un certo punto della loro carriera possono migliorare su un solo aspetto: la crescita interiore. Da due anni lavoro su me stessa insieme a una psichiatra». Due testimonianze della complessità che ha raggiunto lo sport professionistico. È il racconto dell’agonismo, almeno in Italia, a non voler adeguarsi. Come se lo spettatore dovesse rimanere nella condizione della folla ai tempi dei gladiatori: pollice su o pollice verso. Perciò Underwater segna un passaggio importante. Il tentativo di concepire l’atleta non solo come un dispensatore di emozioni e di audience.