La scuola, poi l’università e il mondo del lavoro: universi interconnessi tra loro, in cui si riverberano le proporzioni e anche i pregiudizi della nostra società culturale. Uno degli stereotipi più insulsi è quello che riguarda la presunta lontananza tra le donne e le discipline STEM, acronimo di Science, Technology, Engineering (and) Mathematics: secondo un’indagine Ocse Pisa del 2018, che ha rilevato il livello degli apprendimenti degli studenti quindicenni in oltre 60 Paesi, è emerso che soltanto il 2% delle ragazze prevede di lavorare nel campo dell’ingegneria e dell’informatica in più della metà dei Paesi coinvolti nello studio; in Italia, invece, appena una ragazza su otto desidera intraprendere una carriera in ambito STEM. Con certi numeri, è inevitabile che il preconcetto sugli scienziati donna e il divario di genere siano ancora vivi, sembrino così difficili da scalfire, da sconfiggere.
Lo scenario, però, sta cambiando: merito delle istituzioni politiche, che da anni lavorano all’abbattimento di certe barriere – anche solo mentali. Merito di aziende proiettate nel futuro, del loro impegno in progetti e iniziative mirate, ma anche nella costruzione di contesti lavorativi stimolanti e senza discriminazioni di sorta. Eni, in questo senso, è una realtà innovativa: meno di un anno fa, nel dicembre 2021 l’azienda ha sottoscritto i Women Empowerment Principles (WEP) delle Nazioni Unite, come parte del proprio impegno per promuovere l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile nel luogo di lavoro, nelle pratiche di business e nella società. Ma poi ci sono le esperienze personali, le storie, di chi va al lavoro ogni giorno. Di chi ha vissuto o soltanto percepito queste disparità, e quindi non può fare altro che impegnarsi per cancellarle. Sono scienziati che occupano dei ruoli importanti, donne giovani che prendono decisioni: Miriam Parisi, Eleonora Venditti, Serena Sagnella. Le abbiamo fotografate, ci siamo fatte raccontare cosa si prova a fare questo lavoro, oggi.
«Fin da piccola», racconta Miriam Parisi, «adoravo risolvere problemi di aritmetica. Una volta arrivata all’università ho scelto ingegneria perché mi dava la possibilità di concretizzare la matematica e la fisica, di risolvere i problemi con questi strumenti». Solo dopo è scattata la passione per ingegneria nucleare: «Non sapevo se inseguire il mio sogno, ma poi alla fine mi sono convinta. Ed è stata la scelta giusta: il mio primo progetto in Eni era legato alla fusione a confinamento magnetico. Proprio quello per cui avevo studiato». In quanto scienziato donna, Parisi sente che le cose stanno cambiando. Per merito delle aziende, ma anche grazie alla determinazione di questa nuova generazione: «La mia struttura è guidata da una donna ingegnere, in Eni ci sono molte scienziate in ruoli strategici. I problemi io li percepisco all’esterno, laddove devo e dovrò fare più fatica per impormi su alcune cose. Ma è una situazione che vivo dai tempi dell’università: su quindici iscritti eravamo tre o quattro donne. Per me non c’era alcuna differenza: si è studenti e poi scienziati indipendentemente dal genere».
«Scienza è passione», dice Eleonora Venditti. «Se ce l’hai dentro, è difficile da estirpare. E il genere non c’entra niente: il fatto che ci siano pochi scienziati donna è un riflesso del mondo accademico». Eleonora sa di cosa parla: triennale in ingegneria, specialistica in energia meccanica. Poi l’approdo in Eni: «Lavoro per sviluppare i nuovi progetti di Enjoy, il car sharing di ENI, e all’interno dell’azienda non ho riscontrato particolari criticità in termini di gender equality». All’esterno di ENI, invece, «le differenze ci sono». E per cancellarle? «Tutto parte dalle regole imposte dall’alto», sostiene Venditti. E ora anche le aziende stanno facendo molto anche nella comunicazione». Ogni scienziato donna, poi, può impegnarsi ed essere un esempio: «Tra noi donne è importante essere compatte e solidali, io per esempio sono stata influenzata da chi è venuta prima di me. Tutto passa dallo studio, dal lavoro: fare le cose bene è la strada giusta per ispirare altre ragazze, perché scelgano di fare questo tipo di carriera, anche se resistono ancora delle barriere».
Prima di iscriversi all’università, Serena Sagnella non sapeva che esistesse la Facoltà di Ingegneria Chimica. Poi se ne è innamorata: «Mio padre voleva un figlio ingegnere, ci è riuscito con me al quarto tentativo: volevo rimanere nell’ambito delle discipline STEM, e alla fine ho scelto la facoltà giusta per me. E l’ho fatto a scatola chiusa». È andata bene anche dal punto di vista dei rapporti tra colleghe: «Eravamo tutte ragazze, in pratica. E secondo me questo è un segnale importante: le donne dovrebbero saper andare al di là dei pregiudizi, dovrebbero avvicinarsi sempre di più a certi ambienti». Sagnella racconta che «le esperienze di alcune mie amiche sono tragiche: disparità di trattamento, anche relative allo stipendio, sono ancora all’ordine del giorno». Lei, invece, ha trovato un lavoro appagante e stimolante: «Metto in pratica quello che ho studiato, ed è una cosa bellissima». Ma anche l’ambiente intorno a lei fa la differenza. In positivo: «Sono in un team giovane, e fin dal primo giorno non ho avvertito alcuna disparità. Né rispetto agli uomini, tantomeno rispetto a chi era in azienda da più tempo. È stata ed è una sensazione impagabile, e se oggi posso rendere al meglio è merito di questa sensazione di benessere lavorativo».