«Siamo in competizione con i televisori da 80 pollici nelle case della gente», aveva dichiarato Jon Ledecky, proprietario dei New York Islanders di hockey su ghiaccio americano, franchigia NHL che nel novembre 2021 ha aperto il nuovissimo palazzetto UBS Arena, progettato da Populous e costato un miliardo di dollari. Secondo alcuni report, le varie squadre degli sport americani potrebbero arrivare ad investire dieci miliardi di dollari in nuovi (o rinnovati) impianti sportivi nei prossimi dieci anni, anche se il mondo dell’impiantistica sportiva americana fa storia a sé sia come approccio sia come velocità nell’evolversi. Ci fornisce però, spesso in anticipo, parametri e tendenze che influenzano l’architettura sportiva contemporanea e descrivono come questa stia inseguendo i cambiamenti del pubblico oltre a, forse, influenzarne le nuove abitudini.
Guardando all’ambito europeo, nel calcio, c’è in effetti sempre più interesse e dinamismo attorno ai progetti dei nuovi stadi, che sono entrati in una fase ulteriormente evoluta rispetto a quella dei cosiddetti “stadi contemporanei” esplorati dal 2000 in poi. L’architettura sembra chiamata ad adeguarsi e realizza impianti che sono camaleontici, definiti “stadi Transformers” da Bleacher Report, pronti a mettere in gioco tutta la tecnologia esistente per passare in poche ore da una partita di calcio a una di football americano o di tennis, fino al grande concerto pop internazionale – e, in tutto questo, perennemente connessi al web. «Oggi tutti controllano i risultati delle altre partite in diretta e condividono la loro esperienza allo stadio in tempo reale sui social media. Quando progettiamo uno stadio, questo è uno degli aspetti base da considerare e sta ovviamente rivoluzionando la natura stessa dell’edificio», diceva qualche tempo fa l’architetto Dan Meis, fondatore e ad di Meis Architects, già coinvolto nel concept dello stadio della Roma e nella prima fase di progettazione del futuro nuovo stadio dell’Everton.
Lo vediamo nel nuovissimo impianto del Tottenham Hotspur (Populous, 2019), caso-studio molto rilevante e che dimostra quanto veloce si stia correndo negli ultimi anni sul lato progettazione. Lo conferma Silvia Prandelli, senior principal di Populous Italia (sede che ha aperto a Milano nel settembre 2021 come ulteriore ramificazione della società di architettura sportiva forse più importante al mondo): «Negli ultimi decenni l’idea di stadio è completamente cambiata. Le architetture per lo sport sono dei laboratori, dei luoghi di ricerca e innovazione e in Populous abbiamo dipartimenti specializzati in ogni singolo aspetto della progettazione. Le nuove generazioni di infrastrutture sportive hanno come prerequisiti la tecnologia, la sostenibilità e la flessibilità. Devono essere architetture in grado di offrire esperienze incredibili e la chiave fondamentale è proprio la possibilità di riconfigurarsi in base ai diversi tipi di eventi ospitati».
Quindi la tecnologia e le opportunità digitali in fase di design liberano la mano degli architetti, permettendo un ventaglio di scelte che contribuirà anche a cambiare il nostro modo di “usare” lo stadio? Usare, sì, perché in fin dei conti lo stadio è ancora luogo che assolve a una funzione principale: guardare la partita di calcio. A fine anni Novanta, quando si stava approcciando al disegno del nuovo stadio di Wembley, Sir Norman Foster (Foster + Partners) fece un curioso parallelismo dichiarando che riteneva il Boeing 747 “l’architettura” migliore possibile perché racchiudeva tutti i servizi necessari in uno spazio incredibilmente ristretto. Ed era convinto che lo stadio contemporaneo dovesse riuscire a diventare la stessa cosa in futuro.
Si cammina quindi in equilibrio, sia come architetti-progettisti che come tifosi-utilizzatori, fra il desiderio di comfort e la voglia di vivere un’atmosfera elettrizzante, e quello che può sembrare un paradosso (come fa la comodità a coesistere con l’esaltazione?) è proprio la grande ambizione dell’architettura sportiva contemporanea. All’Hard Rock Stadium di Miami, per esempio, un settore “luxury” offre la possibilità di sedersi su veri e propri divani a poca distanza dal campo ma, per contro, è sempre più diffusa l’idea che servano gradinate a posti in piedi che garantiscano ai tifosi più appassionati di vivere l’evento a pieno, tifando senza sosta. E allora, mentre assistiamo all’evoluzione dell’architettura sportiva e della tecnologia applicata agli edifici – che in effetti ritroviamo anche nei progetti di urbanistica integrata nelle grandi città – viene spontaneo porsi delle domande: fino a dove ci si spingerà in futuro? Come saranno i grandi stadi fra 20, 30 o 50 anni? Forse come “The Stadium of Tomorrow” immaginato da Populous e National Geographic nel 2018, che prevedeva un tetto-giardino con turbine eoliche, accessi sotterranei per il pubblico tramite un tunnel sottomarino e una stazione del treno “hyperloop” (1.000 km/h in vagoni sparati all’interno di tunnel a bassa pressione, ci si lavora da una decina d’anni) o ancora capsule/pod che si muovono a spinta magnetica lungo la tribuna per pochi e selezionatissimi ospiti? Tutte soluzioni che, più o meno, vengono già realizzate e/o studiate singolarmente (le capsule sono state presentate da C360 e Sarner International nel 2019). E allora perché non pensare che la prossima versione dei grandi stadi sarà un mega-edificio che le conterrà tutte?
Secondo Prandelli, «quando si progetta uno stadio oggi si pensa alla funzionalità, ai servizi, alle innovazioni in grado di stupire, ma insieme si affrontano temi di “senso”, il significato dello sport nel suo contesto sociale, l’esperienza di relazione che offre». L’impressione è che si vada nella direzione di pensare luoghi che sono città nelle città, che si adeguino perfettamente alle aree circostanti e che diventino anche focus di ecosostenibilità. Lo stiamo notando con i Giochi Olimpici (e forse con i Mondiali di Qatar 2022) dove le città in sé sono “sede” delle gare, con i propri spazi urbani adattati temporaneamente e dove i nuovi impianti vengono già costruiti nell’ottica del ridimensionamento successivo. Ma lo confermano anche giganti come la Climate Pledge Arena (Populous, 2020) o il Mercedes-Benz Stadium di Atlanta (HOK, 2017), quest’ultimo con uno dei punteggi LEED (certificazione sostenibilità) più alti al mondo, che ospita un orto urbano dedicato alla comunità locale ma è anche luogo turistico, con i visitatori che possono salire fino in cima allo straordinario tetto a 92 metri da terra.
D’altronde, è vero che i nuovi stadi sembra vogliano dare un motivo alle persone di uscire di casa per andare a vedere la partita ma… e se nessuno lo facesse? Se arrivassimo a un punto in cui tutti guardiamo la nostra squadra dallo smartphone, il calcio potrebbe ancora esistere? Le partite a porte chiuse del periodo pandemico ci hanno detto il contrario, ci hanno confermato che lo sport ha ancora bisogno del pubblico “in presenza”. «L’esperienza dello stadio rimane qualcosa di unico, è qualcosa che non puoi trovare da nessun’altra parte, ed è da lì che bisogna partire», è il pensiero di Ryan Gedney, Senior Project Designer HOK. «Perché è ovvio che le possibilità virtuali possono indurre le persone a rimanere a casa e non si può negare che ci siano spesso difficoltà e disagi nell’arrivare allo stadio. Ma l’esperienza della partita inizia proprio da quando si acquista il biglietto e si pianifica il viaggio, e il nostro compito di architetti è pensare nuovi edifici, nuovi luoghi che siano comodi, facili da vivere ma sempre entusiasmanti».
In definitiva, potremo avere impianti iperconnessi e tecnologici, meglio misurati al bacino d’utenza dei singoli club o ai contesti cittadini, e più coerenti con il contesto urbano. Ma in qualunque tipo di architettura guarderemo le partite, in futuro le persone continueranno a voler socializzare, a voler essere al centro di un momento di emozione, di pathos, di ansia e di gioia. In qualunque stadio ci ritroveremo fra 50 anni, la cosa fondamentale sarà ancora essere tifosi e voler vivere la passione per la propria squadra dal vivo, non davanti a uno schermo sul divano di casa.