No, Andrea Masiello non va perdonato

Una riflessione sul caso, tornato d'attualità dopo il mancato ritorno del difensore a Bari da avversario.

C’è chi, in queste ore, ha pensato di intrufolarsi in una faccenda che è di pochi. La notizia è che Andrea Masiello non è stato convocato per Bari-Südtirol: una condizione, peraltro, voluta dal giocatore stesso alla firma del contratto. Troppo problematico tornare al San Nicola, troppo teso l’ambiente, il giudizio sull’ex difensore biancorosso, per quello che è successo in Bari-Lecce, 15 maggio 2011. Il giocatore che, undici anni fa, si era venduto un derby. La nostra passione, la sua dignità. Quando, come avrebbe poi confessato durante gli interrogatori dell’inchiesta per calcioscommesse, avrebbe realizzato di proposito un’autorete, per mettere al sicuro la sconfitta del Bari. Quando Gillet gli ha urlato «Andava fuori, Andre»: quello era il nostro urlo. L’urlo di chi gli si sentiva amico: ci dispiace per te, non lo meritavi, nell’ultima partita in casa del Bari in Serie A, di chiudere così.

Ha ammesso, ha pagato, si legge su alcuni quotidiani. C’è chi ha infarcito la storia di redenzione: è stato protagonista di iniziative umanitarie. Che dire, allora: al San Nicola Masiello sarebbe dovuto entrare con tutti gli onori. Applaudito, osannato. Hai venduto la nostra passione, dovremmo dirgli, ma è acqua passata: hai pagato, che problema c’è. Invece i baresi, cattivi, gli hanno riservato insulti – incredibile – che sarebbero «inaccettabili», tutto il contrario del «comportamento ineccepibile» (sic) del giocatore modello.

A Bari e ai baresi Masiello non ha mai chiesto scusa per quell’autogol, per le partite truccate: ha ostentato indifferenza. Ha creduto che fossimo numeri, puntini, gente senza cuore, magari senza cervello. Ha pensato bene di ricostruirsi un’immagine rispettabile a Bergamo, lì dove conveniva. Non lì dove era necessario. Nessuno, quando Masiello ha deviato il pallone alle spalle di Gillet in quel derby, pensava che lo avesse fatto di proposito. Era un nostro idolo, il vice-capitano della nostra squadra. Non ce lo meritavamo noi.

L’idea di accostare questa vicenda, quella di Masiello non benvenuto a Bari, a episodi di violenza o anche a scene come quella di pochi giorni fa a San Siro, con migliaia di tifosi costretti a lasciare la curva su diktat degli ultras, è già di per sé profondamente sbagliata. La violenza e le propaggini malate del calcio non c’entrano affatto con la vicenda Masiello: c’entra invece il cuore trafitto e ancora sanguinante di una tifoseria che ancora oggi, a distanza di anni, ricorda quel derby e in generale quella stagione, terminata con una retrocessione disonorevole, come la pagina più nera della propria storia.

Masiello è il volto di copertina di una vicenda bruttissima, quella del calcioscommesse, ed è facile capire il perché. Dicono: ha pagato, è stato squalificato per due anni e mezzo. Al termine dei quali Masiello è tornato in campo, smacchiato della sua colpa, ha giocato ad alti livelli, in Serie A e pure in Champions League, ha portato avanti la sua carriera come se nulla fosse. Nel frattempo il Bari è retrocesso senza lottare, è tornato in Serie B, è finito in problemi societari serissimi, è fallito per ben due volte, ha dovuto ricominciare dalla Serie D. Mentre Masiello si godeva le notti europee, il Bari viveva una lunga, tortuosa agonia.

È una questione di rispettare la passione, e quindi la sofferenza. Tifare vuol dire cose molto belle: aggregazione, divertimento, vuol dire essere partecipi di qualcosa insieme a migliaia di sconosciuti. In un calcio in cui spesso si rilevano gli aspetti più turpi e controversi, la passione è il fuoco che, come la fiaccola di Olimpia, si cerca di preservare: è il cuore di tutto, il significato di tutto. Tifare, però, vuol dire fare i conti anche con tutto lo spettro di emozioni umane, anche le più spiacevoli. Il rancore è una di queste: è la passione a muovere queste emozioni, e anche non perdonare è parte del gioco.

Solo chi tifa, comprende. E solo chi comprende, può perdonare. Non ci sono Var o moviole che tengano. Non ci sono giudizi inappellabili, né una giustizia sportiva che può essere presa come riferimento unanime – ok, teniamogli il broncio per due anni e mezzo, che poi passa. Tifare, gioire, soffrire, è una questione personale, e solo chi ne è coinvolto può scegliere: se perdonare, oppure no. Se fischiare, oppure no. Jean-François Gillet, che a Bari è stato capitano di lunghissimo corso, oltre a essere il recordman di presenze nella storia del club, fu fischiato sonoramente al suo ritorno da avversario, sempre sull’onda lunga del calcioscommesse. C’è chi non fu d’accordo con quel trattamento riservato a una delle bandiere storiche della squadra. Si può essere in disaccordo, ma non giudicare, né accusare: quello che ribolle nell’animo di ogni tifoso, dopo un’umiliazione del genere, è privato.

È questo: è un affare privato. È fare i conti con quello che abbiamo provato da tifosi, è una ferita che credevamo rimarginata e che invece brucia ancora. Bisogna essere tifosi per capire. Bisogna essere tifosi per poter perdonare.