Contro gli stereotipi sulle Nazionali africane, solo fisiche e disorganizzate

I Mondiali del passato e le prospettive del futuro raccontano una storia e una realtà diverse.

Nel 2018, quando nessuna Nazionale africana è riuscita a superare la fase a gruppi della Coppa del Mondo, facendo ripiombare l’intero continente in un incubo sportivo che non viveva dal 1982, sul banco degli imputati è finito l’intero universo del calcio africano. Ovviamente l’obiettivo era vivisezionare quella che si poteva definire a tutti gli effetti come una catastrofe tecnico-tattica, ma ben presto l’analisi critica ha lasciato spazio ai soliti luoghi comuni, alcuni anche dal sapore vagamente razzista. Tra i tanti miti rispolverati per l’occasione, uno dei più gettonati è stato quella della squadre africane fisiche, umorali e quindi incapaci di elaborare un modello di gioco efficiente e redditizio, di veicolare un’identità calcistica ben definita e riconoscibile. Come se una rappresentativa africana, ontologicamente, avesse solamente una dimensione fisica. E una vittoria, o anche una sconfitta, non potesse avere anche delle motivazioni tecniche, tattiche e/o strategiche.

Uno stereotipo pericoloso, costruito su un pregiudizio discriminatorio, che «mira a spogliare il giocatore africano della propria intelligenza e creatività, lasciandolo solo con la sua forza fisica», come ha spiegato brillantemente l’intellettuale nigeriano James Yeku in un lungo editoriale pubblicato su Al Jazeera. Dopo la vittoria del Senegal per 2-1 sulla Polonia, per esempio, Daniel Karell su NBC Sport ha scritto che Lewandowski e i suoi compagni erano stati sopraffatti «dal ritmo e dalla esuberante fisicità dei Leoni della Teranga». Un punto di vista condiviso anche da Slaven Bilić, ex commissario tecnico della nazionale croata, all’epoca opinionista per ITV, un nota emittente televisiva britannica. Non si tratta, tuttavia, di casi isolati. Anzi, tutt’altro. Come scrive Alex Cizmic sulla newsletter Kura Tawila, nel 2020 una società di ricerca danese, Run Repeat, ha rivelato che, quando parlano di potenza e fisicità, è sei volte più probabile che giornalisti e commentatori stiano descrivendo un calciatore di carnagione scura rispetto ad uno di pelle bianca. Una narrazione tossica, eurocentrica e intrinsecamente razzista, alla quale si è voluto ribellare nel 2010 il senegalese Lamine N’Diaye, l’allora allenatore del Mazembe, alla vigilia della finale del Mondiale per Club con l’Inter di Rafa Benítez: «Abbiamo una testa, un cervello, due braccia, siamo come tutti. Abbiamo mostrato al mondo intero che l’Africa va presa sul serio».

Di argomenti per smontare il falso mito delle nazionali africane lacunose dal punto di vista tattico se ne trovano anche nella storia dei Mondiali. La Tunisia guidata da Abdelmajid Chetali, che nella fase a gironi di Argentina 1978 batté il Messico diventando la prima nazionale africana a conquistare una vittoria iridata, era una squadra estremamente organizzata e con dei principi di gioco piuttosto chiari. Nonostante la rosa fosse composta interamente da giocatori dilettanti, le Aquile di Cartagine proposero un calcio arrembante, qualcuno lo definì addirittura totale, sfruttando il grande contributo offerto da due terzini fluidificanti dalla vocazione offensiva come Mohsen “Jendoubi” Labidi e soprattutto Ali Kaabi, autore di una delle tre reti nella storica gara con il Messico. «Chetali aveva una filosofia di calcio offensiva, anche perché era ben conscio delle nostre qualità tecniche. Non era uno di quelli a cui piaceva fare solo catenaccio», ha ricordato Mokhtar Dhouib. Solo per un pelo la Tunisia, al primo Mondiale della sua storia, mancò la qualificazione alla fase successiva. A condannarla all’eliminazione, dopo la vittoria sul Messico e la sconfitta con la Polonia, fu il pareggio a reti inviolate con la Germania Ovest. Una partita macchiata da alcuni discutibili episodi arbitrali, almeno secondo il racconto di Dhouib a Jeune Afrique: «Avremmo potuto vincere e andare avanti se l’arbitro, (il peruviano Cesar Guerrero Orosco, ndr), ci avesse assegnato un calcio di rigore solare per un fallo ai danni di Agrebi Ben Raiem».

Quattro anni più tardi, un altro episodio controverso, il celebre biscotto tra Germania e Austria passato alla storia come “La Disgrazia di Gijón”, causò l’eliminazione dell’Algeria. Le Volpi del Deserto, allenate da Mahieddine Khalef, avevano iniziato quell’avventura battendo a sorpresa la Germania Ovest nella gara d’esordio. Nonostante il blasone dell’avversario, e l’assenza per infortunio di un pilastro come Karim Maroc, Khalef non aveva ceduto alla tentazione di snaturare l’architettura di gioco con cui aveva pensato e costruito la sua squadra. L’allenatore nato in Marocco, coadiuvato dagli assistenti Rachid Mekloufi e Rabah Saâdane, aveva optato per un assetto decisamente offensivo mandando in campo contemporaneamente due giocatori di grande tecnica come Lakhdar Belloumi e Moustapha Dhaleb. A fare legna, correndo anche per loro, ci avrebbe pensato l’inesauribile Ali Fergani: «Il mister voleva che facessimo il nostro gioco», ha ricordato Fergani, «che provassimo a prendere spesso la palla. I tedeschi, vedendo passare i minuti, iniziarono ad infastidirsi. All’intervallo era 0-0». Nella ripresa la strategia di Khalef avrebbe pagato per intero i suoi dividendi: dopo essere passata in vantaggio con Madjer, e riacciuffata da Rummenigge, una rete di Belloumi regalò all’Algeria una vittoria leggendaria.

Per vedere una nazionale africana oltrepassare le colonne d’Ercole della fase a gruppi bisognerà attendere la rassegna messicana del 1986. A tagliare lo storico traguardo fu il Marocco. Allenato da José Faría, un coach brasiliano convertitosi all’islam che l’anno prima aveva vinto la Coppa dei Campioni africana alla guida del FAR Rabat, quel Marocco aveva tanta fantasia dalla cintola in su, ma anche un’organizzazione tattica piuttosto sofisticata. Anziché ingabbiare il talento a sua disposizione dentro un modello di gioco rinunciatario e attendista, José Faría pensò bene di liberarlo, costruendo la squadra sulla classe cristallina di Aziz Bouderbala e Mohamed Timoumi. Senza, però, rinunciare all’equilibrio, imprescindibile per fare strada in una competizione come la Coppa del Mondo. In difesa, davanti al mitologico Badou Zaki, un portieri tra i più forti nella storia del calcio africano e che in Spagna avrebbe vinto anche un premio Zamora, c’erano due difensori rocciosi come El Biyaz e Labid Khalifa. Ad occuparsi dell’equilibrio generale della squadra, compensando in qualche modo le avanzate del terzino Lamriss, era invece Abdelmajid Dolmy, soprannominato il Maestro. Mustafa El Haddaoui, accanto a lui, forniva ulteriore copertura difensiva, concedendo maggiore libertà ai due giocatori più creativi del Marocco, ovvero Bouderbala e Timoumi. Quest’ultimo, soprannominato “il Platini del Maghreb”, aveva subito un brutto infortunio solamente qualche mese prima in una gara di Coppa dei Campioni africana tra FAR e Zamalek, rompendosi il legamento crociato del ginocchio, ma il re Hassan II reclutò uno dei migliori chirurghi del Paese per l’operazione, riuscendo a rimetterlo in piedi per i Mondiali. Entrambi erano incaricati di portare i rifornimenti alla punta “Krimau” Abdelkarim Merry, presentatosi in grande spolvero ai nastri di partenza della Coppa del Mondo dopo un’annata da 17 gol in 34 partite con i francesi del Le Havre. L’alchimia creata da Faría si rivelò vincente. A sorpresa, dopo due pareggi per 0-0 con Polonia e Inghilterra, i Leoni d’Atlante sconfissero per 3-1 il Portogallo e volarono agli ottavi di finale, dove sarebbero stati eliminati non senza fatica dalla Germania Ovest di Lothar Matthaus.

Ancora oggi, il Camerun 1990 è la Nazionale africana che ha fatto più strada a un Mondiale: fu eliminata ai quarti di finale dall’Inghilterra, un traguardo raggiunto in seguito solo dal Ghana 2010, battuto dall’Uruguay a un passo dalla semifinale, per altro solo ai calci di rigore (Allsport/Getty Images)

Dare un giudizio a posteriori sul rapporto tra le nazionali africane e gli allenatori provenienti da altri continenti, Europa in primis ma anche Sudamerica (come nel caso del Marocco del 1986), però, è un’operazione storica molto complicata per la miriade di fattori da tenere in considerazione. Se in gran parte dei casi si è rivelato negativo, con numerosi carneadi che si sono ritrovati ad allenare nazionali blasonate con il solo scopo di «fungere da super partes, garantendo un’imparzialità in un contesto caratterizzato da rivalità di matrice etnica», come hanno spiegato Tado Oumarou e Pierre Chazaud nel loro libro Football, religion et politique en Afrique, d’altra parte non si può negare che l’esodo di massa degli stregoni bianchi europei sulla panchine delle nazionali africane tra gli anni Ottanta e Novanta abbia sicuramente contribuito a diffondere nuove idee tattiche nel continente, producendo anche qualche effetto positivo sul calcio africano. Ne sono un esempio il Camerun del 1990, eliminato dall’Inghilterra ai quarti del mondiale italiano, la Nigeria del 1994, che andò ad una manciata di minuti dall’eliminare l’Italia di Sacchi agli ottavi, ma soprattutto il Senegal di Bruno Metsu, capace di arrivare sino ai quarti del mondiale nippocoreano del 2002, e il Ghana del 2010, guidato in panchina dal serbo Milon Rajevac, a cui solo una “parata” di Suarez ha negato una storica semifinale mondiale.

Anche Christian Gourcuff, padre dell’ex meteora milanista Yoann ed ex ct della nazionale algerina, crede che ci siano dei vantaggi e degli svantaggi in questa tendenza storica: «Affidarsi ai tecnici europei é un errore», ha spiegato a Libération, «perché le attitudini e le aspirazioni dei calciatori africani non corrispondono alla visione degli allenatori. É indispensabile trovare uno stile di gioco proprio, preservando una certa identità, anche se al giorno d’oggi é complicato dare un’identità tattica definita ad una nazionale africana perché la stragrande maggioranza dei giocatori non milita nei campionati domestici». Adesso, però, sembra finalmente arrivato il momento dei commissari tecnici africani. A differenza di quattro anni fa, quando in Russia solamente due allenatori erano africani e uno soltanto nero (il senegalese Aliou Cissé), in Qatar tutte le cinque Nazionali del continente saranno guidate da tecnici africani. Due di loro, Cissé e il marocchino Walid Regragui, sono stati formati dal Coaches Program, il primo corso per allenatori professionisti lanciato dalla CAF nel 2018. La sensazione è che questo Mondiale, per il calcio africano, potrebbe essere l’alba di una nuova era.