L’Argentina si è fatta divorare dai suoi fantasmi

L'Arabia Saudita aveva e ha meno talento, ma ha vinto la sfida tattica, fisica e mentale.

Come tutte le cose della vita, anche una partita di calcio va analizzata a più livelli. Da più angolazioni. Prendiamo Argentina-Arabia Saudita 1-2: sul risultato finale – e quindi sulle valutazioni relative alla Selección di Scaloni, arrivata in Qatar da favorita – pesa sicuramente il ricordo degli psicodrammi già vissuti ai Mondiali e alle coppe America giocate prima del 2021, cioè è impossibile pensare che l’Argentina , per di più reduce da una vittoria in Copa América e da 36 risultati utili consecutivi in tutte le competizioni ufficiali, abbia perso contro l’Arabia Saudita solo per ragioni tecnico-tattiche. C’entra anche la testa, per forza: dopo i due gol dell’Arabia Saudita, Messi – soprattutto Messi – e i suoi compagni hanno iniziato a sentirsi prigionieri del passato, a giocare peggio rispetto al primo tempo e alle partite disputate da tanto tempo a questa parte. È stato come come se le certezze che sembravano aver cementato perfettamente il calcio di Scaloni, la leadership di Messi, il rapporto tra il numero dieci e il suo supporting cast, si fossero sgretolate tutte insieme, in pochi istanti. E infatti, dopo essere andata sotto, l’Argentina ha praticamente smesso di giocare in modo organico: tutte le occasioni per pareggiare – neanche così tante, in realtà: su otto tiri non respinti, solo quattro sono finiti nello specchio e solo tre sono nati da azione manovrata – sono state costruite in modo arruffato, la tensione dei giocatori in campo era palpabile, l’elettricità che si c’era nell’aria era di quelle negative, anzi nefaste, come quando ci sono tutti i segnali che sta per succedere qualcosa di brutto.

Il punto, come detto in apertura, è che l’analisi di una partita è completa solo se fatta a più livelli. Perché il calcio è uno sport ma anche un gioco complesso, e quindi non può essere ridotto a una pura sfida mentale, a un esercizio di meccanica muscolare che si nutre di lucidità e/o di emotività, in parti possibilmente non uguali. Ci sono la tecnica, la tattica individuale e di squadra, ci sono le scelte degli allenatori. Sono tutte cose che incidono. Che hanno un peso. E allora, molto probabilmente, per spiegare e raccontare Argentina-Arabia Saudita 1-2 nel modo giusto ha senso fare alcune cose: la prima è provare a capire perché la Selección non sia riuscita a fare come l’Inghilterra contro l’Iran, cioè non sia stata capace di travolgere un avversario palesemente inferiore segnando due o tre gol in rapida successione; da qui, poi, si potrebbe partire per rileggere meglio l’Arabia Saudita, gli uomini e il sistema di Renard, il lavoro fatto dal commissario tecnico francese per studiare gli avversari, per bloccarli. Per provare a vincerla davvero, la partita.

Basta riguardare il primo tempo per capire cosa intendiamo: pur nell’ambito di un dominio territoriale e anche tattico piuttosto netto da parte dell’Argentina, gli uomini di Scaloni hanno segnato solo su rigore. E a parte il penalty di Messi, hanno messo insieme appena quattro tiri verso la porta dell’Arabia; di questi, solamente uno è arrivato dall’interno dell’area, e solamente due sono arrivati al termine di un’azione manovrata. Sempre nel primo tempo, di converso, i giocatori con la maglia albiceleste sono stati pescati per sette volte in fuorigioco: in tre di queste occasioni, la segnalazione ha portato all’annullamento di un gol. Insomma, i numeri dicono che la fase passiva a dir poco ambiziosa predisposta da Renard – in alcuni momenti i quattro difensori si schieravano praticamente sulla linea di centrocampo, anche su situazione statica – ha funzionato davvero bene, ha neutralizzato il gioco in verticale ma anche la costruzione ragionata dell’Argentina, ha costretto Messi ad allontanarsi dall’area avversaria. Quando questo tipo di atteggiamento non portava a un beneficio immediato, i calciatori sauditi recuperavano compattezza con una rapidità e un’intensità spaventose, e così per tutta la gara si è avuta la sensazione che ogni palla contesa e ogni rincorsa lunga premiasse i calciatori vestiti di verde. Solo che all’inizio la tecnica superiore degli argentini ha avuto il sopravvento, anche se leggero, e allora questa percezione è stata meno netta. Poi sono venute fuori la fisicità e la forza e l’organizzazione degli avversari.

È questo il nocciolo, il nucleo di tutto: per quanto rischioso, il piano tattico di Renard era esatto. Il ct dell’Arabia Saudita contava sul fatto che la tecnica e la sicurezza dell’Argentina, a un certo punto, sarebbero venute meno. O comunque sarebbero diminuite, perché minate dall’aggressività dei suoi uomini. Nel frattempo, la speranza era che quella stessa aggressività, quella stessa organizzazione parossistica, potesse limitare i danni. Li ha limitati, abbiamo già detto come. Poi è iniziata la ripresa e sono arrivati due gol inattesi ma anche molto belli, perché anche qui c’è una differenza netta: rispetto a quelli del Qatar e alla maggior parte di quelli dell’Iran, i giocatori dell’Arabia Saudita sono sembrati più dotati dal punto di vista puramente tecnico. E non solo perché Salem Al Dawsari, in occasione della rete del 2-1, ha fatto un poì di giocate – il controllo, il dribbling, il tiro – di grande fattura: anche il primo gol sull’asse Al Brikan-Al Shehr, al netto della chiusura sbagliata dei due difensori centrali e del tuffo lento e pesante di Emi Martínez, non è stato né banale né casuale. Così come non lo sono state le prestazioni – fisicamente e difensivamente – inappuntabili di Al Shahrani e Tambakti, il sacrificio quasi metafisico di tutti i calciatori scelti da Renard, quelli scesi in campo dal primo minuto e quelli subentrati nella ripresa.

Gli highlights di Argentina-Arabia Saudita

L’Argentina che si è fatta divorare dai suoi fantasmi, dunque, prima di farsi divorare ha anche arrancato dal punto di vista del gioco, non ha saputo reagire a un contesto tattico reso sfavorevole dagli avversari. La Selección ha pagato la mancanza delle illuminazioni di Lo Celso, elemento centrale nel gioco di Scaloni, questo è stato evidente e tutti, fin da subito. Ma va anche detto che Paredes, De Paul, Gómez e Di María non sono apparsi in grado di andare oltre certi limiti, intesi come sforzo fisico e varietà di gioco. Messi ha finito per farsi risucchiare in questo vortice, d’altronde per lui è inevitabile che le partite vadano analizzate in base al suo stato mentale, al fatto che la sua squadra gli permetta o meno di sentirsi bene, quindi di rendere. E allora si può dire che Scaloni e i suoi giocatori non sono stati abbastanza bravi a metterlo a suo agio dal punto di vista tecnico-tattco, e allora Messi si è eclissato nella psiche e nell’espressione del gioco, e allora l’Argentina ha perso la gran parte del suo potenziale. E pure la partita. Tutti questi demeriti, però, vanno mescolati con i meriti dell’Arabia Saudita. Di un avversario che ha ridato senso al Mondiale per quello che è: un torneo fatto di partite in cui il talento può essere decisivo, ma c’è anche tanto altro a cui badare. La mente, la tattica, la forza fisica. In tutto questo, per tutto questo, la sconfitta dell’Argentina è stata tutt’altro che casuale.