Glorie, vittorie ed errori di Andrea Agnelli

Con le dimissioni del numero uno bianconero, si chiude un'era fondamentale: per la Juventus e per il calcio italiano. Un'era di successi, di visione all'avanguardia, ma anche di un impero crollato, sotto il peso di una crescita impossibile.

Le dimissioni sono arrivate di lunedì sera, come all’indomani di una domenica di campionato. Solo che non c’era nessuna partita di Serie A il giorno prima, e nessun allenatore che decideva di farsi da parte: è un presidente che si dimette, Andrea Agnelli, insieme a tutto il cda della Juventus, certamente il presidente che più di tutti, nell’ultimo decennio, ha plasmato il calcio italiano. Lo ha fatto con i successi, le vittorie, ovviamente, con quei diciannove trofei – che ne fanno il numero uno juventino più vincente di sempre – e con quei nove scudetti consecutivi che resteranno a lungo un primato inattaccabile. Ma lo ha fatto anche in un altro modo, con una visione moderna, d’impresa potremmo dire, accantonando i vecchi modelli di business – se così si potevano chiamare – e facendo entrare il calcio italiano nel futuro, ancor prima che i capitali americani potessero inondare casse e strategie della Serie A.

Sono dimissioni che fanno molto rumore, almeno per due ragioni. Uno: le modalità. Un fulmine a ciel sereno, una brutta espressione che però, qui, calza alla perfezione. Insieme al coinvolgimento del cda tutto, che porterà a un reset totale del quadro dirigenziale bianconero. Due: le ragioni, con l’inchiesta Prisma della Procura di Torino che ha messo nel mirino le operazioni di bilancio del club, le famose plusvalenze, e quindi gli scambi di mercato, e poi le manovre degli stipendi, al tempo in cui il Covid picchiava duro sulle finanze delle squadre di calcio. Le accuse sono pesanti e ipotizzano che i massimi dirigenti della Juventus abbiano iscritto il falso nei bilanci e agevolato operazioni fasulle per contenere le perdite degli ultimi esercizi commerciali. Ci sarà tempo per verificare se quanto avanzato corrisponda al vero, e più in generale, vicende giudiziarie a parte, considerare l’operato e le responsabilità di Agnelli su questo fronte.

Quello che queste dimissioni e l’inchiesta nel suo complesso non devono far perdere di vista è il ruolo che Andrea Agnelli ha avuto nello sviluppo non solo della Juventus, ma di tutto il calcio italiano. In Serie A, c’è un pre e un post Agnelli. L’anno è il 2010: la Juventus si è appena risollevata dalle macerie di Calciopoli, è tornata immediatamente in Serie A e poi in Champions League, ma l’opera di ricostruzione procede lenta e tormentata. Anzi, fa numerosi passi indietro, come provano i due settimi posti consecutivi, l’ultimo dei quali già con Agnelli a capo del club. Nel frattempo, il calcio italiano produce gli ultimi fuochi: il Milan è campione d’Europa nel 2007, l’Inter nel 2010. Sono le ultime vittorie di un ciclo irripetibile, dei Moratti e dei Berlusconi, che di lì a poco si sarebbero fatti da parte, di un ciclo che in realtà comprende anche i Tanzi, i Cragnotti, i Sensi, i Cecchi Gori. Un calcio marchiato anni Novanta la cui onda lunga era arrivata fino al 2010. Ma non poteva durare.

Quando Agnelli arriva alla presidenza della Juve, il calcio italiano è vecchio. Puzza ancora di quella lontana epoca in cui la Serie A era il campionato più ricco, più seguito, più ambito al mondo. Mentre in Italia ci si crogiolava con un’idea antiquata di grandeur, negli altri Paesi, Inghilterra in primis, si aggiornavano le strategie e si modernizzavano i modelli di gestione. Il calcio italiano, invece, rimaneva fermo, e ben presto avrebbe fatto i conti con la dura realtà: un calcio povero, indebitato, non più vincente. L’idea del proprietario che si indebita personalmente pur di acquistare l’ultimo fuoriclasse a emergere non funzionava più: la concorrenza non solo era aumentata, ma era diventata più ricca e più performante. Le big d’Italia si sarebbero riscoperte nude e indifese: basti pensare a quanto tempo hanno impiegato Milan e Inter a riaccendere le proprie ambizioni, dopo il passaggio di consegne dei vecchi proprietari.

Agnelli ha la capacità e la visione di cambiare tutto. Di voltare pagina. Il primo segno tangibile lo eredita dalla precedente gestione: lo stadio di proprietà. Nel 2011, per il calcio italiano è qualcosa di paragonabile alle auto che volano: qualcosa di futuristico. Si inizia a parlare di “effetto Stadium”: la Juve non perde più in casa, vola in campionato, torna a essere la squadra di riferimento in Serie A. L’effetto Stadium è qualcosa di suggestivo, che contribuisce ad arricchire il racconto attorno al primo scudetto della Juventus dopo il 2003 – almeno dopo la revoca dei due scudetti del 2004/05 e del 2005/06. In realtà, lo Stadium proietta il club in una dimensione nuova, che è quella dell’élite europea. Anche perché rappresenta una vittoria commerciale: in un decennio, la Juve ha ottenuto oltre 500 milioni di euro di introiti dal suo impianto. «I ricavi sono in crescita del 700 per cento rispetto a Comunale, e oggi valgono 70/80 milioni», ha detto poco tempo fa Agnelli.

Questa è una base significativa di quello che Agnelli costruisce nel tempo, da presidente. Capisce l’importanza di aumentare i ricavi, per poter lottare alla pari con i top club europei, e in particolare capisce l’importanza di diversificarli. I club italiani degli anni Duemiladieci sopravvivono grazie a un’unica, irrinunciabile, entrata: i diritti tv. Accettabile per una piccola, non per una squadra che aspira ad affermarsi anche in campo internazionale. Ancora nell’ultima rilevazione di Deloitte, si intuisce facilmente il peso dei diritti tv per i bilanci dei club italiani: valgono il 68 per cento dell’intero fatturato del Milan e il 65 per cento per quello dell’Inter. Per il Real Madrid è il 49 per cento, per il Bayern il 42, per il Psg il 36. Sono tutti club che fanno leva su altro, dipendente da loro piuttosto che da una logica di sistema: i ricavi da stadio, appunto, ma soprattutto quelli commerciali. La Juve, sempre stando alle ultime rilevazioni, ha mitigato questa eccessiva dipendenza dai diritti tv, che pesano per il 55 per cento.

All’inizio di questo percorso, però, non era certo una missione facile. Un primo aiuto arriva dai risultati sportivi: la Juventus vince i campionati – arriverà a nove di fila, un risultato da celebrare e da ricordare a lungo – e si qualifica tutti gli anni in Champions, nell’epoca in cui la qualificazione vuol dire prestigio ma anche introiti pesanti. Nessun’altra squadra italiana riesce ad avere una continuità di partecipazione come la Juventus, e questo contribuisce notevolmente al gap che i bianconeri scavano con la concorrenza. L’eccitazione per le vittorie e la fascinazione per il nuovo stadio sono anche un veicolo efficace per ripulire l’immagine della vecchia Juve e costruirne una nuova, con tanto di benefici per l’appeal commerciale del club. Che, con Allegri, torna pure, per due volte, in finale di Champions: è l’idea che sottintende come la Juventus sia tornata agli antichi splendori.

A questo punto della gestione Agnelli, la Juventus ha ormai superato i 400 milioni di fatturato annuo. È una cifra enorme, soprattutto se paragonata a due parametri: da dove era partita la Juve di Agnelli, che nel primo anno di presidenza aveva un club che fatturava “solo” 156 milioni di euro, e il confronto con la concorrenza interna. L’Inter, per esempio, nel 2015 non va oltre i 180 milioni di fatturato, e il Milan fa poco meglio. La Juve ha quindi una potenza di fuoco decisamente migliore, ed è quella che rende la competizione interna praticamente inesistente. Come fanno per esempio da anni il Psg in Francia e il Bayern in Germania, la Juventus di Agnelli arriva a uno status di monopolio assoluto, disponendo a piacimento delle rivali che, in teoria, dovrebbero competere ad armi pari: l’estate 2016, per esempio, lo afferma in tutta la sua forza, con gli acquisti dei giocatori più forti delle squadre competitor, Higuaín dal Napoli e Pjanic dalla Roma.

Dal 2016/17, il fatturato della Juventus è stabilmente sopra i 400 milioni, arrivando al record di 494 milioni nella stagione 2018/19. È uno status economico che permette ai bianconeri di sedere al tavolo dei club europei più ricchi, “pareggiando” i ricavi di molte delle big del continente. La Juve, proprio come succede oltre i confini nazionali, diventa un brand: promuove numerose iniziative, di taglio sportivo o sociale, apre la sezione femminile, che diventa in breve la squadra più forte d’Italia, batte ambiti sempre più importanti, come la moda, che si ritrova nella collezione Icon o nella fortunatissima collaborazione con Palace, apre un nuovo centro di allenamento con tanto di hotel e ristorante, è protagonista di documentari distribuiti su Netflix e su Prime Video, si apre ai mercati stranieri, come gli Stati Uniti e la Cina. È un mondo nuovo, completamente diverso rispetto a quello a cui eravamo abituati: la Juve è una potenza sul campo ma anche fuori, riuscendo a vedere in anticipo le potenzialità di quello che può sviluppare e ispirare una squadra di calcio. È davvero un salto nel nuovo millennio, che nessuna squadra italiana aveva fatto prima, e che oggi anche le big italiane si sono riscoperte costrette a fare.

Quando la Juve sfiora il tetto dei 500 milioni di ricavi, è tanto, ma non abbastanza. Almeno per Andrea Agnelli, che spinge per arrivare al vertice del calcio mondiale, lì dove ci sono il Real Madrid, il Barcellona, il Manchester United. Nel 2016 utilizza un’espressione che verrà ricordata: «Siamo l’ultimo vagone di prima classe». La sua è una visione di audacia, è quella di far diventare, se non tutto il calcio italiano, almeno la Juventus il benchmark dell’aristocrazia europea.  È una visione però legittima, perché sorretta da un percorso coerente, di crescita costante, sviluppato nella maniera giusta. Nel 2018, allora, arriva l’uomo che promette di far accorciare quel percorso: Cristiano Ronaldo.

Molto si è detto dell’opportunità, anche e soprattutto economica, di acquistare uno dei calciatori più costosi che siano mai esistiti nella storia del gioco. Piuttosto, va sottolineato come in un campionato precipitato nella periferia del calcio europeo sia arrivato, da un giorno all’altro, una delle facce che compongono la diarchia che ha regnato in questo sport negli ultimi vent’anni. Un’operazione soltanto impensabile pochi anni prima: Ronaldo era nel Real Madrid, se non il Real Madrid, la squadra più ricca e vincente della storia, e più in generale apparteneva a un’altra dimensione, di prestigio, di struttura, di investimenti. La Juventus può permetterselo, ma soprattutto ha il potenziale per convincere Ronaldo: la Serie A esce dal cono d’ombra in cui ristagnava da tempo, riconquistando una popolarità ormai perduta.

Per la Juve, l’acquisto di Ronaldo significa oliare tutti i meccanismi di leva commerciale: il portoghese spinge il club sui social, e lo fa in maniera travolgente, senza che nessun social media manager o qualche media house si inventi nulla. La Juve, che su Instagram non arriva ai dieci milioni, si inerpica fin su oltre i cinquanta. Per le potenzialità commerciali del brand, un’opportunità grandiosa. La presenza di Ronaldo in squadra ha pure la conseguenza di aggiungere contratti commerciali o aggiornare quelli già esistenti, come quelli dei principali sponsor: Jeep, che passa dai 17 ai 45 milioni annuali, e Adidas, che fa il salto da 23 a 51 milioni a stagione. i ricavi commerciali, nel complesso, aumentano del 30 per cento, quelli da merchandising del 58 per cento, quelli da stadio del 25 per cento.

Proprio nel momento di maggior sforzo economico del club, che con la scommessa Ronaldo prova a far schizzare verso l’alto le proprie entrate, arriva la pandemia. Per la Juventus una catastrofe, la situazione che crea la situazione debitoria odierna, con un passivo superiore ai 250 milioni di euro, e pure i presupposti perché termini, così come è terminata, l’era di Andrea Agnelli. Il progetto finanziario, di fatto, si è arrestato insieme a quello tecnico, con numerosi errori anche sul mercato, spesso dettati proprio dalla situazione economica, e più di una scelta affrettata, come gli ingaggi e i prematuri esoneri di Sarri e di Pirlo. Marco Iaria, su Twitter, ha riassunto al meglio l’ultima fase tribolata della gestione Agnelli: «Sono stati commessi errori enormi negli ultimi anni. Non la visione strategica – portare il club a un livello industriale più alto, agganciare ricavi fino ad allora inaccessibili al calcio italiano, da qui l’operazione Ronaldo – ma le scelte sportive sottostanti, con una mobilitazione di oltre 500 milioni di investimenti dal 2018 che ha dato risultati deludenti. L’impressione è che, una volta maneggiate risorse ingenti, Agnelli abbia perso lucidità e il management non si sia dimostrato all’altezza. Tali errori, uniti all’uso disinvolto del player trading e all’emergenza Covid, hanno condotto alla crisi sportiva ed economica e alle manovre contabili oggetto delle attuali contestazioni».

Non sapremo mai dove sarebbe arrivato Andrea Agnelli, e la Juventus tutta, senza la pandemia e i già citati errori. Nella sua visione all’avanguardia – in questa rientra anche il progetto Superlega, che merita una trattazione a parte: giusto nelle premesse, sbagliato nella forma – Agnelli ha voluto accelerare più di quanto gli fosse possibile. Ha fatto all-in, e gli è andata male. Proprio l’ultimo passo lo ha fregato: il più lungo, il più insidioso. Poteva decidere di fermarsi, di rinnovare una squadra e di bilanciare gli investimenti: ha cercato invece di continuare a sfrecciare ad alta velocità, ma è lì che ha perso il controllo, con acquisti danarosi durati il tempo di mezza stagione, di allenatori presentati in pompa magna e poi liquidati in quattro e quattr’otto, di scelte poco ponderate e molto azzardate. In due anni, ha dovuto ricorrere a un doppio aumento di capitale del valore di circa 700 milioni. Un buco clamoroso. Un buco che, alla fine, si è scavato da solo, costringendosi ad acrobazie che sono state decisive nella sua caduta.