Perché il Brasile si è inceppato ancora?

La Seleçao si è fatta divorare dagli eventi e dall'ansia, fino all'epilogo più inatteso.

Baciare il pallone prima di un calcio di rigore decisivo è un segno di debolezza. La questione non è se poi quel rigore venga segnato o meno, piuttosto la scelta di abbandonarsi all’imponderabile, all’intangibile a ciò che non si piò controllare. Quasi come se dovesse essere la palla, e non la posizione del piede o la lucidità sotto pressione, a fare tutto il lavoro. Per questo il Brasile aveva già perso quando Marquinhos ha baciato il pallone prima del suo rigore: nel momento più importante del Mondiale, uno dei giocatori chiave della Seleçao aveva deciso di affidarsi al destino senza opporvisi. Quel destino che, tra l’altro, aveva già dato un suo segnale – anche piuttosto chiaro – quando la Croazia era riuscita a pareggiare al minuto 116′ dopo il vantaggio di Neymar: il tiro deviato di Bruno Petkovic è stato l’unico dei croati finito nello specchio della porta in tutta la partita. Il preludio perfetto della beffa consumatasi ai rigori, per il Brasile.

Partire dall’aspetto emotivo – anzi: emozionale – per commentare una sconfitta del Brasile ai Mondiali è sempre la scelta più logica, probabilmente anche la più facile. Si tratta di un topos classico, di facile impatto, che a pensarci bene ricorre anche nel racconto delle versioni vincenti della Seleção. E che è pure sostanzialmente vero, in questo caso. Contro la Croazia, infatti, il Brasile ha vissuto un crollo dopo aver peccato di supponenza, un po’ come ci si aspetterebbe dal Brasile: il pareggio di Petkovic è arrivato perché la squadra di Tite, pur essendo in vantaggio di un gol a una manciata di secondi dalla fine della partita, era tutta riversata in avanti e ha concesso un tre contro tre in campo aperto.

Finora abbiamo detto che in fondo potevamo – dovevamo – aspettarcelo, dal Brasile. Il punto, però, è che non ce lo aspettavamo da questo Brasile, una squadra compatta, coesa, equilibrata, incardinata intorno a quel dogma della fluidità che aveva permesso a Tite di costruire un sistema che fosse in grado di reggere senza troppi scompensi uno schieramento 3-2-5 in fase di possesso,  in cui Paquetá potesse agire da secondo mediano accanto a Casemiro. Il commissario tecnico si è dimesso dopo la partita – «Si è concluso un ciclo, sono sereno e in pace con me stesso», ha dichiarato – ma è anche sembrato allinearsi a quel fatalismo auto-assolutorio che accompagna le sconfitte, specie quelle più inattese. In realtà nel – bellissimo – Brasile visto ai Mondiali c’era tanto di suo, e lo stesso discorso vale per quanto si è visto durante il match contro la Croazia: dalla frettolosa sostituzione di Vinícius con Rodrygo – che, naturalmente, ha sbagliato il suo rigore – all’idea folle di voler sfiancare sulla lunga distanza un gruppo che aveva già dimostrato di poter essere considerato la rappresentazione plastica della resistenza umana. «Questa è la Croazia. Abbiamo eliminato la grande favorita di questo torneo. Abbiamo giocato al meglio quando contava di più e ancora una volta abbiamo confermato che nessuno dovrebbe mai sottovalutarci. Come sempre, abbiamo mostrato orgoglio, fede e coraggio. Sono un uomo felice», ha detto il ct Dalic.

Il momento in cui il Mondiale del Brasile è diventato un incubo

L’icona di una squadra del genere non può essere che Luka Modric, protagonista di 120 minuti e più di calcio che sono stati una continua citazione alla prestazione di Zinédine Zidane al Waldstadion di Francoforte nel 2006 – sempre ai quarti di finale dei Mondiali, sempre contro il Brasile, sempre in quella che avrebbe dovuto essere la sua ultima apparizione con la maglia della sua Nazionale. Il numero 10 della Croazia ha dominato – tatticamente, tecnicamente, psicologicamente – una gara in cui la sua squadra ha creato pochissimo, ma è comunque riuscita a meritare la semifinale, sfruttando le poche armi a disposizione e neutralizzando attraverso il palleggio il vero punto di forza del Brasile, vale a dire la riaggressione alta nella trequarti avversaria.

«Il Brasile è sempre favorito», aveva detto Modric nella conferenza stampa della vigilia. «Ma noi abbiamo delle possibilità se ci esprimiamo come sappiamo. Li abbiamo affrontati diverse volte ma non siamo ancora riusciti a batterli e spero che la situazione cambi. Abbiamo dimostrato tante volte che non sempre vincono i favoriti, quindi non dobbiamo farli giocare». Il capitano della Croazia, in pratica, aveva visto e giocato la partita prima di giocarla davvero. aveva anticipato l’andamento di una sfida che lui e i suoi compagni hanno incanalato sui binari più congeniali anche dopo il gol che poteva e doveva rappresentare il defining moment di Neymar ai Mondiali. E invece, come George Foreman a Kinshasa, il Brasile è finito al tappeto nel momento in cui credeva di aver messo alle corde l’avversario, peccando di eccessiva presunzione, con Dominik Livakovic nel ruolo – non del tutto inatteso – di Muhammad Ali. La squadra di Tite si è inceppata sul più bello, si è bloccata è in modo improvviso e inspiegabile e non ha saputo reagire, si è fatta divorare prima dagli eventi e poi dall’ansia di essere arrivata ai rigori. La differenza con la Croazia, a pensarci bene, è tutta qui: Modric e compagni erano e sono la “squadra del destino” che il suo destino se l’è costruito da sola; il Brasile era ed è la squadra più forte, la squadra che forse avrebbe anche meritato di vincere, solo che il destino ha scelto di subirlo. Anche prima che Marquinhos baciasse il pallone e poi sbagliasse il rigore decisivo.