Pelé era la vera divinità del calcio

Una leggenda fatta di poche immagini e video, ma tramandata di bocca in bocca come i misteri della fede.
di Gianni Montieri 30 Dicembre 2022 alle 10:25

La cosa che so di Pelé, che so direttamente, attraverso un racconto di prima mano, è leggendaria ma in negativo. La cosa che so di Pelé riguarda una sua prestazione straordinaria in negativo. La cosa in negativo che so di Pelé risale al 1963. Il Brasile gioca un’amichevole a San Siro contro l’Italia, Pelé è marcato da Trapattoni, costantemente braccato e anticipato dal numero 6 dell’Italia, esce dopo 26 minuti lamentando un infortunio. Anni dopo lo stesso fenomeno brasiliano dirà di aver avuto mal di stomaco, e il Trap dirà di lasciarlo stare perché «quel giorno era mezzo infortunato». Questa cosa che so di Pelé me l’ha raccontata una persona a me molto cara, che, come Pelé, non c’è più: mio padre. Mio padre non è mai stato un tipo da stadio – faceva in quel periodo il servizio militare all’Ospedale di via Inganni – e mi ha sempre detto di aver scavalcato. A San Siro, mio padre, un tizio che ho sempre immaginato non in grado di infrangere alcunché. La cosa straordinaria che so di Pelé è destinata a viaggiare per sempre con una cosa straordinaria che so di mio padre. Un ragazzo si fa coraggio e scavalca a San Siro per vedere il campione brasiliano che non tocca palla, che esce prima della mezz’ora. Ne è valsa la pena? Dalla luce che balenava negli occhi di mio padre a ogni racconto parrebbe di sì.

Quello stesso anno, a ottobre, Pelé torno a San Siro per l’andata della Coppa Intercontinentale, sempre contro il Milan, sempre marcato dal Trap, che stavolta si tolse pure lo sfizio di segnare il primo dei quattro gol del Milan. La partita finì 4-2 per il Milan, Pelé si liberò solo una volta della marcatura del Trap segnando un bellissimo gol e realizzò il secondo su rigore. Tutto questo però è irrilevante – pur essendo una finale di Coppa Intercontinentale – perché nessuno me lo ha raccontato, papà scavalcò per la partita sbagliata. Quando nessuno racconta finisci per immaginare, andando all’indietro Pelé, con ogni probabilità, è stato il calciatore, insieme a Di Stefano, che più ho provato a immaginare.

Un’altra cosa che so di Pelé l’ho immaginata dal futuro, trasportando un ragazzino incredibile che ho visto giocare qualche anno fa una sessantina d’anni indietro. Quasi dieci anni fa mi trovavo a San Paolo in vacanza, mi ricordo di aver fatto anche lì – come spesso mi succede nelle città che non conosco – decine di chilometri a piedi per andare nei posti che le guide non indicano. Una mattina, andando dalla zona più centrale della città verso la stazione ferroviaria di Luz, di fronte a un grattacielo in stato d’abbandono (che poi ho scoperto essere una sorta di favela in altezza, occupato da famiglie in gravi difficoltà), c’era un terreno incolto e dei ragazzini che giocavano a calcio a piedi nudi. Uno di questi faceva delle cose meravigliose, ricordo di essere stato lì a guardarlo per almeno mezz’ora, il mondo è sparito per un po’. Colpi di tacco, tunnel, dribbling a ripetizione, tiri di destro, di sinistro, colpi di testa. Un vero piacere per gli occhi, a un certo punto anche una sforbiciata. Quando sono andato via ho cominciato a pensare a quello che abbiamo sempre saputo: i calciatori brasiliani cominciano sempre così. Non è questo che ci hanno sempre detto? In una favela, su una spiaggia, tra i campi, sempre scalzi, sempre bravissimi. Ricordo d’aver pensato chissà come e dove ha cominciato Pelé, ma non sono mai andato a cercare una foto, una storia che lo riguardasse bambino, ho sostituito Pelé a quel ragazzino e ho montato le stesse immagini in bianco e nero, ho creato le sue origini nella mia testa. Quando non esistono molte immagini noi ne creiamo di nuove, perché ne abbiamo bisogno.

Non esistono molte immagini di Pelé, certo ce ne sono alcune indimenticabili, così come esistono i filmati dei gol, di alcune azioni incredibili. Eppure, nulla di paragonabile a quello cui siamo abituati con Maradona e ancora di più con Messi e Cristiano Ronaldo, basterà poco tempo per avere più immagini di Bellingham che di Pelé. D’altro canto, il nome di Pelé risuona ancora fortissimo, per certi versi è come se avesse smesso di giocare da poco, o come se non l’avesse ancora fatto. Pelé ha a che fare con la santità? Se Maradona per i napoletani e gli argentini è Dio, per i brasiliani Pelé, e – in qualche modo – Garrincha appartengono al culto dei santi. Sempre a San Paolo, al Museu Do Futebol – che si trova all’interno dello stadio del Palmeiras – gli unici due calciatori che hanno una stanza tutta per sé sono proprio Pelé e Garrincha. Più che una stanza dovremmo dire una cappella, perché ricorda proprio un piccolo edificio di culto. Si gode di un certo silenzio, anche in presenza di molte persone, in quell’ambiente ci si muove piano e si parla poco. Ci sono foto, trofei, gigantografie (o affreschi di cartone?), grandi televisori sui quali passano a ripetizione video di gol e di azioni spettacolari dell’uno e dell’altro, o dei due insieme. Potendo accenderesti una candela, e – sinceramente – l’unica cosa che avresti voglia di fare è metterti a pregare. Recitare un breve salmo a San Pelé da Três Corações, letteralmente tre cuori, che non sono bastati.

Stando sulla santità l’immagine più vicina a noi che abbiamo di Pelé è quella del salto verso il paradiso che spicca per colpire di testa durante la finale dei Mondiali di calcio del 1970. Le immagini di quel momento, da qualsiasi prospettiva le si guardi, restituiscono il brasiliano verso un’altezza non consentita agli umani, libero di colpire di testa e di segnare, rimandando la palla al piano terra. Tutti gli altri, a cominciare da Burgnich – che da allora è diventato una metafora di quando qualcuno non ce la fa: sembri Burgnich sovrastato da Pelé – rimangono nella dimensione concessa ai calciatori normali. Stanno nella foto, nei filmati di repertorio e nell’azione, perché così è documentato, ma allo stesso tempo diventano spettatori come tutti quanti gli altri. Quanto tempo è rimasto sospeso in aria il calciatore brasiliano? Chiunque abbia raccontato quel gol, ha detto o scritto, enfatizzando, che si è trattato di un tempo eterno, che adesso si risolve. Pelé – avete mai fatto caso a quanto sia bello scrivere queste quattro lettere? – andandosene, con ogni probabilità, è solo salito a prendere un pallone che viaggiava più in alto rispetto a quello di Città del Messico.

È morto ancora al primo posto tra tutti i migliori marcatori brasiliani nella storia della Selecão, con 77 reti in 92 presenze. Prima o poi, con tutta probabilità, verrà scavalcato da Neymar, a quota 71 (Evening Standard/Hulton Archive/Getty Images)

Tutti abbiamo presente le vecchie immagini degli album di famiglia, quei piccoli rettangoli da cui sorridono i nonni. Fotografie non più in bianco e nero, non ancora a colori, di quella tonalità che per convenzione chiamiamo seppiato. Ecco, Pelé per me si è mosso soltanto nel colore seppiato, perciò troppo distante per essere davvero compreso o amato, nonostante questo, troppo bravo per non credergli. Torniamo ai santi, chi crede non domanda prove e noi a Pelè – senza dubbio – crediamo.

Quando guardiamo i vecchi filmati d’archivio tutto ci appare più lento, ci sembra che a Pelé sia concesso dribblare, prendere la mira e tirare con tutta calma. Lui va piano, i difensori vanno pianissimo e di conseguenza siamo portati a pensare (in maniera molto ingenua): adesso non andrebbe da nessuna parte. Ovviamente ci sbagliamo perché Pelé era rapidissimo nella velocità consentita dal suo tempo, da quei terreni di gioco irregolari, da quei palloni di piombo, dalle maglie troppo pesanti, da quegli allenamenti. La velocità con cui Pelé sposta il pallone da un piede all’altro, in diverse azioni, prima di calciare è impressionante, basta regolare il nostro immaginario tra il 1955 e il 1970. Quando Pelé fa il sombrero su un difensore dell’Atletico Mineiro o della Svezia sta compiendo lo stesso gesto per il quale ci strappiamo le mani adesso se lo vediamo fare da Di María. Quando si solleva mezzo metro da terra, per stoppare la palla con il petto e riscendere solo per calciare e segnare, sta facendo qualcosa di irreale, ci facciamo caso oggi figuriamoci allora. Quando fa una o due finte di corpo in sequenza, muovendo gli avversari senza toccare il pallone, sta ballando, e noi se pensiamo al ballo lo pensiamo come una cosa senza tempo. Perché così è. Quando, in piena area di rigore, in uno sgranatissimo filmato girato a telecamera fissa, lo vediamo saltare due difensori, in un metro e mezzo, prima di calciare, pensiamo davvero che vadano più piano? O lo sosteniamo per convenzione? Un dribbling è un dribbling: o lo sai fare oppure no. Un tocco d’esterno ad anticipare il difensore e il portiere ha sempre la stessa difficoltà e successiva efficacia, che tu lo guardi fare a Pelé in un seppiato di fine anni Cinquanta, o a Maradona in un colore già un po’ sbiadito del 1986.

Pelé, per quello che conosciamo, potrebbe essere morto già da cinquant’anni oppure non essere mai nato. Trasportato nelle nostre fantasie, andando di bocca in bocca, come capita con le leggende o i racconti del Vangelo. Per questi motivi non sappiamo nemmeno se essere dispiaciuti per la sua morte (naturalmente sì, si capisce), siamo di certo preda di un dispiacere maggiore, invidioso e retroattivo, che deriva dal fatto di non averlo mai visto giocare. Un po’ abbiamo sbirciato, un po’ ci hanno raccontato, fatto sta che al mistero della fede di San Pelé noi abbiamo creduto e crediamo.

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